Prc in corsa fra timori e silenzi

A telecamere accese sullo scontro nella campagna elettorale, l’attenzione viene attirata dal lavoro dei «professionisti» della politica. A colpire, in questo ambito, è la la recente assise nazionale di Rifondazione comunista, le decisioni significative prese rispetto a «deroghe» e «compatibilità» dei candidati nelle liste elettorali, e la comunicazione singolarmente blindata sul giornale del partito, Liberazione.

Di tutta la discussione l’enfasi è costantemente posta – seguendo il copione di Fausto Bertinotti – sulla presenza degli «esterni» messi in lista. Con quale possibilità di influire sulle scelte di Rifondazione non si dice, e manca una riflessione esplicita su quanto alcuni di questi «esterni» possano davvero significare un rapporto consistente del Prc con i «movimenti», e non ne siano invece una icona di rappresentazione scenica, in realtà sostitutiva di relazioni significative (e la vicenda controversa di Rifondazione con i movimenti in questi ultimi due anni poteva invece meritare una pubblica riflessione).

Grande enfasi, dicevamo, sugli «esterni» nei resoconti, e viceversa grande discrezione sull’interno di partito. Si nomina un dibattito nutrito, «al di là di maggioranza e opposizioni» ma nulla se ne sa: citate sono solo alcune affermazioni dei leader delle correnti, come da burocratico obbligo, e nulla più. Eppure, forse meritava qualche problematizzazione il voto sulla deroga allo statuto del partito che poneva un limite al numero di legislature dei parlamentari; così come l’abbandono della «incompatibilità» fra diversi incarichi – sul cui valore Bertinotti in passato si era speso – che oggi perciò permette di candidare il gruppo dirigente del partito (segreteria e buona parte della direzione) ad assumere insieme il ruolo di parlamentari.

L’immagine che suggeriscono queste scelte è da un lato la sensazione che il Prc, avendo deciso preliminarmente di «stare» dentro la coalizione di centrosinistra e dunque un domani nel governo con Prodi, ma insieme temendone alcune scelte future – come testimoniano i conflitti sul «programma» – cerchi di premunirsi con una falange atta al `combattimento’.

Ma il messaggio «dentro» il partito certo concentra le energie nell’obiettivo di una «corsa» prioritaria nelle istituzioni, dall’ambito nazionale al singolo municipio, nel competere di singole posizioni di potere.

Colpisce perciò il divario fra queste decisioni, e i commenti teorico politici su Liberazione che attaccano la deriva verso il «partito democratico» nell’Unione, denunciando l’abbandono delle radici che portarono ai «partiti di massa» novecenteschi. Singolare è il glissare sul presente, sui partiti da tempo non più «di massa» ma piuttosto via via concentrati su apparati elettorali e la pletora degli amministratori e funzionari di una miriade di istituzioni a tutti i livelli. Non merita di rifletterci?