Povera università di Baghdad

Il 18 marzo tornano in campo le bandiere arcobaleno. Per chi non vuole dimenticare, per chi si rifiuta di indossare la divisa d’una presunta civiltà superiore, per chi ha visto da vicino la guerra e ha buttato la divisa, l’appuntamento è a Roma. Ne parleremo per tutta la settimana

Professori morti o rapiti a centinaia. Studenti islamici scatenati. Donne in balìa della violenza ad ogni angolo di strada. Baghdad è «spenta», non solo dalla mancanza di energia elettrica (e quindi di acqua potabile). Eppure, dentro l’università c’è ancora chi resiste e cerca di ricostruire una biblioteca. E’ l’Iraq raccontato da chi ogni giorno si misura con gli effetti dell’occupazione americana. La «liberazione» si è ridotta a un ricordo. E la «transizione» ha prodotto risultati devastanti. Arriva anche in Italia questo «diario di guerra», scritto da un docente universitario a beneficio dei colleghi. Lo pubblichiamo depurato dai riferimenti che possono identificare l’autore, in modo che anche i destinatari possano continuare a mantenere vivo questo dialogo a distanza.

Sono e-mail tutt’altro che accademici. Servono a informare anche le Università del Veneto su cosa sta, davvero, accadendo in questi mesi. Messaggi spediti fra mille difficoltà pratiche e con la paura di poter essere intercettato. Una voce intellettuale, laica, libera e indipendente non è tollerabile, a Baghdad. Tanto più se mantiene contatti autorevoli con il mondo universitario. Di qui la necessità di proteggere le identità di chi ha scritto, ma anche della «rete» di docenti e ricercatori che fra Venezia, Padova e Verona riceve questa sorta di «corrispondenza dal fronte interno». Nonostante tutto, il legame non si è spezzato: grazie a Internet viaggiano le informazioni e comunque dagli Atenei del Nordest si organizza il concreto sostegno alla libertà del sapere.

Messaggi che ringraziano per la partecipazione attiva al progetto di ricreare una biblioteca. Il collega iracheno racconta, soprattutto, la vera situazione dell’Iraq due anni dopo l’arrivo delle truppe Usa. Il cosiddetto dopo-guerra si rivela in tutta la sua drammatica portata. Certo, è il «punto di vista personale» di chi prova a continuare a lavorare fra le macerie della città e ciò che resta dell’università. Tuttavia, la «scena» dell’Iraq appare con crudo realismo senza il velo della mediazione.

«Al momento del collasso del fascismo Baath, aveva cominciato a svilupparsi la promessa di un movimento civile progressista. Puntava a instaurare libertà, giustizia, diritti civili. Specialmente all’interno delle università e delle altre istituzioni culturali. Invece, questo possibile processo è stato politicamente bloccato dagli americani», è la premessa che sgombera il campo rispetto al giudizio su Saddam Hussein.

Gli ultimi messaggi sono stati spediti fra fine gennaio e metà febbraio. Insieme alla richiesta di sostenere concretamente ciò che resta del libero insegnamento universitario. Anticipavano, di fatto, la recente escalation degli scontri etnico-religiosi. Denunciano la strategia adottata dagli Usa: paradossalmente, la scelta di interlocutori politici «contigui» al Grande Nemico della «guerra infinita al terrorismo».

Quattro mosse per altrettanti effetti di un solo, clamoroso, boomerang. «Hanno incoraggiato i leaders di gruppi e partiti religiosi di ogni differente settore. Così la loro influenza è diventata politica, senza più limiti all’ignoranza e alla chiusura mentale. Parallelamente, sono state boicottate perfino le tendenze liberali e tecnocratiche». Di conseguenza, hanno spianato la strada allo stragismo: «La società illuminata irachena non concedeva certo spazio di manovra al terrorismo. Grazie ai gruppi religiosi, gli americani hanno acceso il semaforo verde ai governi di Iran, Siria, Arabia per esportare migliaia di terroristi. Gente con il lavaggio del cervello che non ha la più pallida idea della fibra sociale e culturale dell’Iraq». Terza mossa: «Nessuno ha fermato la strage pianificata dei più brillanti professori e ricercatori universitari: finora, i morti sono più di 250». Infine, i fiduciari locali degli Usa hanno messo in ginocchio le città: «Sono state pianificate continue crisi energetiche. Ora siamo senza elettricità per 20 ore al giorno, ma mancano anche l’acqua potabile e il carburante. Riesco a mala pena a stampare qualche pagina grazie all’aiuto di un piccolo, rumoroso e fumante generatore domestico».

E’ stata questa la strategia nella fase del referendum costituzionale e delle elezioni parlamentari. L’Iraq ha votato. Ma libertà e democrazia sono rimaste nelle urne. La situazione reale è precipitata nella direzione della guerra civile religiosa. «La strategia adottata ha finito con il produrre risultati evidenti. L’identità irachena è stata spezzettata in tanti sottogruppi conflittuali, alimentando il settarismo e l’etnocentrismo. E’ stata cancellata la rappresentanza di una voce razionale, umanistica, sociale: sostituita da una sorta di emotività primitiva pre-statuale. Dunque, alla gente è stato imposto di concentrarsi sui bisogni psicologici e di sicurezza. Non c’è più tempo per pensare ad altro che alla sopravvivenza, tanto meno per protestare. Insomma, alla fine l’energia sociale che avrebbe potuto essere diretta verso la definitiva conquista della libertà e della dignità umana ora è motivata solo violentemente nell’aggredire anche nemici immaginari».

Niente di nuovo sotto il sole, anche a Baghdad. «Di nuovo, la vecchia storia si ripete: umiliazioni e sangue, giusto per accumulare una nuova, mitica salvezza. Gli americani sono veramente pragmatici e senza cuore nell’applicare la loro strategia. Ma il problema resta: perché in queste condizioni, tranne una ristretta elite che ne ha coscienza, nessuno si sveglia?».

La corrispondenza via Web traccia anche il quadro di quel che resta dell’accademia in Iraq e conferma quanto sia diventata dura la vita per le donne.

«Molti colleghi sono stati uccisi. Di altri si sa che sono finiti nelle mani di rapitori sconosciuti. Spesso veniamo insultati: come universitari, siamo diventati il bersaglio pregiudiziale degli studenti islamici. Comunque, continuiamo a resistere pazientemente per mantenere quanto può essere mantenuto dei valori accademici e laici all’interno delle università».

Le donne, invece, sopravvivono già in condizioni eloquentemente terribili. «Nessuna donna può più camminare da sola per strada. Altrimenti, rischia di essere uccisa, rapita, stuprata. Siamo tutti in ansia per mogli, figlie, sorelle. Se capita che per qualche motivo restano sole, le chiamiamo ogni cinque minuti al telefono cellulare finché non sono di nuovo insieme ad altri parenti o amici».

Consola la solidarietà internazionale, anche nel campo accademico: «Abbiamo ricevuto negli ultimi sei mesi donazioni dall’Australia, dal Canada e dall’Egitto. Materiale indispensabile a mantenere viva la nostra università, quanto meno dal punto di vista della didattica e dell’aggiornamento. Nel nostro dipartimento, in particolare, contiamo di dar vita ad una vera biblioteca: vi ringraziamo, in anticipo, se continuerete a spedirci libri, enciclopedie, dizionari, bollettini scientifici, tesi universitarie, cd scientifici».