L’annuncio della chiusura
Prima di affrontare la questione della paventata chiusura dello stabilimento di Porto Marghera nella sua complessità, bisogna rammentare il profilo della Dow Chemical nel mondo.
La Dow Chemical è da decenni criticata e osteggiata dal mondo ecologista e di sinistra. Si tratta d’altronde di un disamore perfettamente reciproco, sovente trascurato nel nostro paese negli ultimi anni. Della Dow Chemical è ben noto nel mondo il suo oltranzismo anticomunista con il quale cerca di isolare e di espellere nei propri stabilimenti i sindacalisti di tendenza anche vagamente di sinistra. E come non ricordare il presumibile sostegno della Dow (che si riscontra su varie fonti), insieme con altre multinazionali, al golpista cileno Pinochet? D’altronde negli USA negli anni ‘60 e ‘70 ci furono migliaia di manifestazioni contro la Dow per la sua produzione per l’esercito di napalm e di agente orange con cui furono arsi e avvelenati centinaia di migliaia di vietnamiti (anche in Italia ci furono alcune manifestazioni, tra cui una famosa, che vide insieme scienziati e studenti a Roma alla Sapienza e all’Istituto Superiore di Sanità). In anni più recenti la Dow è stata coinvolta in vari gravi episodi di inquinamento per i suoi impianti di produzione sia in paesi poveri che in paesi ricchi. Per chi vuol saperne di più si consigliano i siti: il documentatissimo www.studentsforbhopal.org/DirtyDow.htm ed inoltre counterpunch.org/mckenna04182005.html (è comunque sufficiente una banale ricerca con motori di motori di ricerca per trovare molte, molte interessanti notizie al riguardo…).
Dopo questa necessaria premessa, è opportuno fare il punto sulla attuale situazione di Porto Marghera, andando alla genesi della vicenda.
Il 18 Agosto nel torpore estivo della canicola vacanziera le agenzie di stampa, riprese dai telegiornali, danno la notizia agli italiani che la Dow non intende riaprire dopo la pausa estiva il proprio stabilimento di Porto Marghera, dove lavorano poco più di cento persone. La notizia coglie di sorpresa in molti, tanto più che c’era stata un’apposita intesa il 27 luglio con le rappresentanze sindacali per la riapertura dopo Ferragosto. La sorpresa era però relativa: da sempre alle chiusure e alle serrate padronali delle imprese si dà luogo ad agosto, senza comunicare niente prima; inoltre la Dow non è certo la compagnia più famosa nel mondo nel rispettare i diritti sindacali. D’altronde la situazione non era certo idilliaca dopo l’incidente del 2002 per un incendio che miracolosamente non mise a rischio l’intera laguna veneta. Anche se nel dicembre 2005 Enti Locali, sindacato e Dow avevano raggiunto un accordo per la messa in sicurezza dell’impianto per i lavoratori e per l’ambiente in relazione ad un importante piano di investimenti, la Dow aveva mostrato segni di insofferenza rispetto, come dire, “ai lacci e lacciuoli” normativi italiani, un odioso e lugubre slogan cui siamo abituati purtroppo da tempo. Nonostante il periodo agostano prescelto per l’annuncio della chiusura dello stabilimento, le reazioni sono state vivaci e piuttosto dure sia a livello degli enti locali sia a livello sindacale. Il motivo è molto semplice, la chiusura della postazione Dow di Porto Marghera comporta un effetto domino non solo genericamente sull’indotto, ma su altre imprese chimiche della laguna di Venezia, e non solo, dove esiste ormai un’interrelazione di pipe line e di trasporto di sostanze chimiche che sono intermedi o sottoprodotti dei vari cicli di produzione: si parla dell’Ineos cvm, Syndial e Polimeri Europa del gruppo ENI, Solvay, Archema, Montefibre. Con la chiusura di Porto Marghera si avrebbero fortissime difficoltà produttive su Ravenna e sui poli chimici di Ferrara (Basell) e Mantova (ENI). Inoltre con il fermo di Dow e di Ineos a Porto Marghera verrebbe a mancare, a prezzi non implausibili, la possibilità di alimentare in laguna la centrale “sperimentale” a idrogeno a basso inquinamento dell’ENEL.
Con la chiusura della Dow di Porto Marghera avrebbe praticamente luogo il de profundis dell’intera chimica italiana. Per questi motivi le reazioni, nazionali e locali, sono state sostanzialmente tutte negative alla notizia stampa del 18 agosto sulla chiusura; solo qualche lazzarone pseudoambientalista ha salutato l’annuncio della chiusura come un fatto positivo.
Le prime reazioni
Alcune delle reazioni alla ventilata chiusura di Porto Marghera sono state degne di nota.
Per esempio, il Sindaco di Venezia, Massimo Cacciari in una intervista al Corriere della Sera del 22 agosto ha ricordato opportunamente: “Se si arrivasse alla chiusura di tutti gli impianti. non sarebbe solo una sciagura occupazionale sugli altri poli chimici, ma anche un delitto di politica industriale. Porto Marghera ha una vera vocazione per l’industria. Una storia con passaggi anche tragici. Negli anni settanta si moriva lavorando qui come emerso dalle indagini di Casson. Ma Porto Marghera fa parte della storia della città. Bisogna farla finita con l’immagine da cartolina: Venezia non è solo il ponte dei sospiri e la città calpestata dai turisti. E’ anche il petrolchimico, la Fincantieri, la Montefibre.” In queste poche parole, si ricorda la consapevolezza e l’orgoglio delle lotte operaie (cui lo stesso Massimo Cacciari non fu certo estraneo negli anni 70), unitamente alle sofferenze e alle morti che al contempo l’industria chimica ha dato luogo in laguna. Ma soprattutto con queste parole si ricostruisce un’antropologia sociale che fa strame di chi vuole racchiudere Venezia in un futuro alla stregua di un mortuario sarcofago (cultural)turistico: il modello di un rilancio dismissione industriale/ polo museistico, da sviluppare stile Bilbao, ignora due evidenze enormi. Il primo, Venezia è già un ipermercato dei tour turistici, che probabilmente ha pure bisogno di un ridimensionamento; il secondo, qualunque economista non sciocco sa benissimo che un sostrato economico basato sul turismo è precario nonchè strutturalmente debole.
Molti ambientalisti hanno avuto delle posizioni molto interessanti al riguardo.
Gianfranco Bettin su il Manifesto ha ricordato alcune motivazioni della vicenda: “La Dow Chemical continua la lunga tradizione che ha visto a Marghera le aziende chimiche sfruttare i lavoratori e l’ambiente per poi andarsene quando la situazione è diventata insostenibile. Quando, cioè, per continuare a produrre rispettando le regole a tutela di salute e ambiente bisognerebbe investire in sicurezza e in riduzione dell’impatto ambientale…”. Bettin dopo aver ricordato i risultati di una recente consultazione informale del Comune di Venezia per posta (dove l’85% degli 80000 che hanno risposto ha espresso un no secco alla continuazione del ciclo del cloro, il nocciolo duro del ciclo chimico di Marghera), enfatizza il ruolo della bonifica delle aree inquinate e di una “chimica, già evolutasi in termini più sostenibili”.
Anche le considerazioni su Liberazione di un altro ambientalista storico di Venezia, Paolo Cacciari, sono state molto penetranti. Questi ha rammentato le conseguenze pesanti dello scioglimento dell’ENICHEM, quando “ l’ENI a dispetto di ogni razionalità tecnologica di prodotto e di processo ha fatto del polo integrato di Marghera uno spezzatino di 13 diverse società … Filiere fortemente verticalizzate, impianti connessi da pipe line e da rigidi contratti di fornitura, servizi comuni…sono stati così separati, esternalizzati, venduti a pezzi e mangiati a morsi da imprese straniere spesso più interessate ad accaparrarsi i marchi e i pacchetti clienti che non a mandare avanti le produzioni”.
Le prospettive
La crisi di Porto Marghera non è evidentemente il solo problema del licenziamento di qualche decina di lavoratori della Dow (cosa che comunque ha una importanza per così dire pregnante); essa è piuttosto l’epifania e lo smascheramento delle scelte governative scellerate di politica industriale ed ambientale degli ultimi 20 anni in Italia.
L’Italia non è una banana republic e sicuramente non può essere una multinazionale americana a decidere la chiusura di una parte consistente dell’industria chimica nazionale. Pertanto se nel corso delle trattative in corso tra DOW, sindacati e Governo per sbloccare la crisi, non emergessero novità, se non la consueta richiesta di finanziamenti pubblici a pioggia e “dell’allentamento” sui controlli e sulle esigenze dei lavoratori e dell’ambiente, bisogna sussumere la questione Marghera, come questione strategica nazionale d’emergenza. D’altronde l’amministratore delegato dell’ENI, Scaroni, smentendo la politica aziendale degli ultimi anni favorevole alla dismissione totale della chimica, si è dichiarato disponibile ad assumere un nuovo ruolo di regista a Marghera.
Le questioni sul tappeto sono molte e complesse.
In primo luogo, al di là delle emergenze di breve periodo, l’Italia si deve dotare di una solida politica industriale e bisogna decidere in quale settore è opportuno investire: siderurgia, cantieristica, chimica, energia, TLC, infrastrutture, alte tecnologie… Potrebbe anche accadere che si ritenga uno o più di questi settori non convenienti, certamente l’Italia non potrà vivere come sistema paese con la produzione di pomodori biologici e con il turismo.
Per dotarsi di una politica industriale occorrono strumenti efficaci; una cosa è certa, bisogna fermare alcune privatizzazioni in corso.
Se il Ministero dell’economia non avesse avuto in mano ancora circa il 30% del pacchetto azionario dell’ENI, sarebbe stato difficile immaginare il dietro front sulla chimica rispetto a Mincato e al management ENI degli ultimi anni, o no?
Il cuore della politica industriale è nella strategia da attuare sulle privatizzazioni; non è un caso il livore di Franco Locatelli su il Sole 24 ore del 27 agosto, quando paragona il caso del ventilato ritorno massiccio ENI a Marghera al caso ENI/ Nuovo Pignone a Firenze tra La Pira e Mattei. A parte la non eleganza di porre a modello negativo una persona quasi in odore di santità come La Pira, si vuole forse scordare che il Nuovo Pignone con l’ENI per molti anni ebbe periodi di buone performances economiche? In effetti, per costruire il nuovo paradigma neoliberista bisogna fare una paranoica ricostruzione chirurgica di un passato irreale.
Anche l’ENEL deve rimanere sotto il controllo pubblico, anche dal punto di vista della consistenza del pacchetto azionario, come gestire altrimenti, insieme con ENI, la partita del metano e delle energie alternative, senza essere spazzati via dai colossi e dai kombinat di altri paesi? Per non parlare della necessità di salvare e di riformare dai disastri berlusconiani le società pubbliche in materia per esempio di sostegno all’occupazione nel Sud o di risorse idriche.
Nelle forze di centro sinistra e quindi nell’attuale governo sono presenti due tendenze che si scontrano: da una parte c’è chi chiede ulteriori privatizzazioni e liberalizzazioni, unitamente a severi tagli della spesa pubblica, dall’altra c’è chi ritiene fondamentale fermare le dismissioni, anzi ricuperando una dimensione pubblica in settori ormai in mano “agli spiriti animali”, con manovre finanziarie morbide che consentano l’intervento pubblico nell’economia. C’è da dire che durante l’estate è andato di moda un tormentone di polemiche sui giornali da parte di alcuni economisti iperliberisti di centro-sinistra, che hanno attaccato il ministro Padoa Schioppa in quanto antirigorista e statalista. Al di là di queste facezie, è chiaro che il prevalere dell’una o dell’altra tendenza determinerà nei prossimi anni l’esistenza o meno di una politica industriale come sistema paese.
Quanto alla chimica, se l’Italia dovesse decidere di mantenere un ruolo nel settore, occorrono una serie di scelte da giocare su vari livelli.
A) Il livello internazionale. Bisogna intraprendere una continua azione di pressione su Bruxelles e sulle altre istituzioni internazionali in modo che le imprese chimiche non possano più produrre con cicli ad alto rischio per lavoratori ed ambiente. In questa maniera si riducono gli spazi per i consueti ricatti per trasferire le imprese chimiche da un paese “rigido” ad un altro “permissivo”. Serve anche un ruolo di intelligence per comprendere come le imprese chimiche agiscano nei paesi poveri e nei paesi permissivi.
B) Il livello nazionale. Se da una parte bisogna creare e finanziare delle facilitazioni logistiche per lo sviluppo delle attività imprenditoriali soprattutto per premiare le imprese che diano garanzie di sicurezza in fabbrica e per l’ambiente, dall’altra serve una revisione della legislazione sull’ambiente (e tanto più di quella sciagurata berlusconiana) e sui suoli, perché non deve essere più possibile che un’impresa usi ed abusi di un territorio e possa decidere all’improvviso di chiudere uno stabilimento. Più di una volta si è assistito al dramma successivo alla chiusura di una fabbrica con la scoperta di rifiuti chimici pericolosissimi nei magazzini o nascosti sottoterra, senza riuscire in alcun modo a ricuperare una parte dei costi necessari per la bonifica. Quanto ai lavori di bonifica sui siti inquinati, così come dovrà avvenire per Marghera, occorre un rilancio dello spazio pubblico. Oggi il fallimento delle agenzie nazionali e regionali per l’ambiente si mostra con il fiorire angoscioso del traffico illecito dei rifiuti, anche chimici. Comunque, anche se le agenzie fossero state più efficienti, è una pura forma ideologica liberista quella di credere risolutiva la regolazione senza il possesso pubblico delle leve economiche di un’attività cruciale e complessa quale la bonifica e la gestione dei rifiuti chimici nel nostro paese.
C) Il livello territoriale. Non dovrà più accadere che sia insediato su un territorio un polo chimico, senza un percorso di consenso degli enti locali e soprattutto dei cittadini. Chi può dimenticare l’idea balzana di un’impresa chimica, che stava per realizzarsi, secondo cui si voleva costruire qualche anno fa un impianto di produzione sull’Isola d’Elba, sottraendo tra l’altro tutta l’acqua agli isolani?
In conclusione la lotta contro la chiusura della Dow a Porto Marghera deve essere inserita in una strategia più generale di sviluppo di una politica industriale nazionale, che miri al consolidamento del ruolo pubblico nell’economia. Altrimenti, si tratterà dell’ennesimo e inflazionato pannicello caldo che serve poco o punto.