Porca miseria quanti sono i poveri!

Chi non ha il senso dell’orientamento non riesce e mettere insieme le cose. Tende a ragionare per piccoli frammenti topografici, costruendosi delle geografie ridotte, dei piccoli spazi di manovra. È sempre alla mercè di qualcuno che, custode della visione d’insieme, si prenda carico del suo disorientamento e lo traghetti altrove, in un’altra sezione topografica. Chi possiede la visione d’insieme è in una posizione di potere, nei confronti del disorientato. Mantenere il disorientato nel suo disorientamento è garanzia di predominio, di egemonia. Non a caso, il sequestratore benda il suo ostaggio per tutto il tragitto dalla zona del sequestro fino al covo in cui verrà tenuto in prigionia. Dopo di che, gli libera lo sguardo, e gli concede di costruirsi una propria ridottissima geografia, che sarà comunque troppo parziale perché l’ostaggio possa dedurne una collocazione, perché possa dire a chicchessia «Io sono qui», e dunque essere salvato. Così, costruire micromappe del contemporaneo, suddividere il mondo in capitoli, per pagine, separare l’attualità dall’economia, la cultura dalla cronaca e dallo sport, riduce l’autonomia delle persone a poche manciate di metri, con una corda lunga quel tanto che serve a dare l’impressione di potersi muovere. Così capita che si è grati a chi tenta di costruire delle mappe complessive, con gli scampoli topografici che si ritrova tra le mani. È il caso del documentario Porca miseria, firmato dal regista torinese Armando Ceste e pubblicato in questi giorni dalle edizioni Ega (libro e dvd, euro 14). La mappa della miseria diventa un cortocircuito di discorsi tenuti troppo spesso separati, costruito forzando la suddivisione per pagine. Così le riprese macchina a spalla nei dormitori pubblici di Torino fanno da controcanto all’incursione situazionista fatta insieme ai devoti di San Precario nei locali del call center dell’892424, ai cantieri faraonici delle Olimpiadi di Torino 2006, ai cancelli della Fiat coi cassintegrati in corteo, al teatro Regio di Torino con le coriste in sciopero ai tempi dei tagli del Fondo Unico per lo Spettacolo. Così i senza tetto scomparsi dai marciapiedi del centro della capitale sabauda durante i Giochi olimpici sono l’altra faccia del trionfalistico sventolare la bandiera a cinque cerchi da parte del sindaco di Torino. Allo stesso modo la carnevalata provocatoria del «minestrone precario» non è che un altro modo per dire quel che dice un operaio di fronte alla macchina da presa: «Facciamo come l’Argentina, andiamo a occupare i grandi magazzini». E i 500 euro al mese di Rodolfo, l’ex dipendente Fiat in cassa integrazione dal 2000 («In sei anni avrò lavorato quattro o cinque mesi»), stanno insieme ai 500 euro degli operatori del call center delle Pagine Gialle, e ai 500 euro di pensione dell’anziano signore pizzicato a rubare mandarini al supermercato e poi umiliato dalla sorveglianza. Con la macchina in spalla Armando Ceste monta una disarmante, lapalissiana messa in scena della contraddizione. Forza dall’interno, con il montaggio, i meccanismi della comunicazione, che vorrebbero nuclei di senso coerenti in se stessi, persuasivi ed evidenti. Mette le une accanto alle altre le evidenze, ma è proprio in quel faccia a faccia, che le evidenze tradiscono le gambe corte che le sorreggono. «Il futuro si realizza», urla lo slogan olimpico che Ceste cattura in una ripresa silenziosa in alta montagna, in cui si percepisce solo il rumore del vento e quella rivendicazione quasi ottusa a guardare soltanto avanti. È proprio in quella coazione a declinare tutto al futuro, che sta acquattato il germe della contraddizione. Come se realizzare il futuro equivalesse a «salvare le modifiche», come chiede ossessivamente il computer prima di archiviare un discorso in memoria, eliminando con un clic ogni presenza del passato, cancellando i muri vecchi con lo stucco e la vernice. Come se il futuro non potesse realizzarsi se non dopo avere messo il passato nel cestino, e averlo poi dimenticato. Perché a guardare tutti avanti, a correre pavlovianamente incontro alla campanella del futuro, si finisce per non accorgersi degli altri che corrono di fianco. Di qui la sensazione di solitudine che Ceste documenta drammaticamente, l’evidente perdita del «noi», del senso della collettività: ciascuno a gestire il proprio allarme personale, ciascuno a disinnescare l’ordigno che si è trovato tra le mani. È il montaggio delle parti che dà il senso della contraddizione, la giustapposizione delle manifestazioni dei metalmeccanici, quella dei lavoratori delle nuove generazioni, e quella dei lavoratori dello spettacolo. Messe insieme, disegnate su un unico foglio fanno una grande mappa, che è la mappa di quella che Ceste chiama miseria, ma che altro non è che un’unica dilagante precarietà, un senso di insicurezza che travalica le generazioni. Che ha bisogno dell’imperativo euforico del futuro per essere tollerata, e ha bisogno dell’oblio del passato, dell’istigazione a una solitudine all’ultimo sangue, per poter essere impartita. Porca miseria è allora un antidoto alla tendenza virale alla parcellizzazione dei discorsi, a isolare le parti dal tutto. Perché poi a metterle insieme, quelle parti, vien fuori un tutto diverso, molto meno rassicurante. Vien fuori quell’«incubo della retrocessione» di cui parla Erri De Luca in un’intervista contenuta nel documentario, che si sta diffondendo come un virus a tutti gli strati della società, a dispetto della retorica ipocrita del «va tutto bene». E a vederlo, Porca miseria, viene in mente il Furore di Steinbeck, sullo sfondo di una società che ha promesso di realizzare l’irrealizzabile, di dar corpo ai sogni. Vengono in mente quella paura, quell’incertezza, quelle facce in fuga: gli scarti del nuovo ordine mondiale.