Politiche universitarie, nella Finanziaria le troppe ombre eclissano le rare luci

A leggere il programma dell’Unione sulle politiche universitarie, almeno su un punto le cose sembravano relativamente chiare. Si trattava infatti di «rimettere la conoscenza, il sapere al centro della politica, dell’economia, della società»; di operare un’inversione di tendenza rispetto al «definanziamento del sistema Università» attuato dal Governo Berlusconi; dunque di «aumentare e qualificare decisamente la spesa per l’Università e per la Ricerca» varando «un piano d’incremento, che comprenda anche le risorse umane», in grado di portare in pochi anni gli investimenti per Università e Ricerca dall’attuale 1% del Pil al 2%.
Alla prova dei fatti (il disegno di legge della Finanziaria) presupposti tanto impegnativi rischiano di somigliare a promesse di marinai. Le cose per le Università si erano già messe male a luglio, quando il decreto Bersani-Visco aveva assestato un colpo durissimo agli atenei, inferendo un taglio del 10% alle spese per i cosiddetti “consumi intermedi” (e cioè affitti, canoni e servizi: tutti capitoli di bilancio essenziali, come si può ben capire). Una cifra enorme, calcolata in circa 200 milioni di euro, per di più da decurtare da fondi che il ministero aveva già attribuito (e le Università già inserito nei propri bilanci). Ci si aspettava che quella “manovrina”, già apparsa allora come una grave lesione di precisi impegni (oltre che come l’indizio di un’allarmante direzione politica), potesse essere corretta dalla Finanziaria. Così purtroppo non è stato. La Finanziaria segna, al contrario, un’ulteriore regressione delle politiche dell’Unione in materia di Università.

Le cifre parlano chiaro. Il fondo ordinario di finanziamento per gli atenei viene incrementato di un magrissimo 0,95% (64 milioni di euro, su un totale di 6.950 milioni di euro). Professori e ricercatori vedranno una decurtazione del 50% dei propri scatti di anzianità in busta paga (un provvedimento tanto più iniquo se si pensa che colpisce soltanto i docenti e non più anche i diplomatici e i magistrati, inizialmente coinvolti dallo stesso taglio). Non bastasse, è previsto il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato per tutto il 2007. La stessa misura che ipotizza l’entrata in ruolo di nuovi ricercatori si mantiene molto al di sotto delle aspettative, essendo prevista l’assunzione di appena duemila precari contro i 20mila di cui si parlava in campagna elettorale e di cui continuano a parlare le associazioni di categoria. Infine, la cifra stanziata per le borse di studio viene sì incrementata, ma di appena dieci milioni, cioè della metà dei tagli praticati dal governo Berlusconi.

Insomma un quadro estremamente preoccupante, fatto di molte ombre che finiscono per eclissare le rare luci presenti nel documento. La principale delle quali brilla fra le righe dell’articolo 71, che prevede il «divieto temporaneo a istituire nuove Facoltà e Corsi di studio» e mira giustamente a bloccare – sulla scorta di quanto già predisposto dal ministro Mussi nei mesi scorsi – la dissennata proliferazione di Facoltà e Corsi di studio generata dalla cosiddetta “autonomia universitaria” nel corso degli anni Novanta. Si tratta di una norma condivisibile, che muove un primo passo in direzione della rimessa in discussione, se non proprio dell’autonomia (responsabile – come ripetiamo da tempo – di un impiego arbitrario di risorse nonché del trionfo della logica mercantile nella vita delle Università), quanto meno di alcuni tra i suoi effetti perversi.

Nella Finanziaria però le ombre prevalgono nettamente sulle luci. A ragione l’Andu (Associazione nazionale dei docenti universitari) l’ha definita “devastante” per l’Università. Lo stesso Mussi si è detto allarmato e ha auspicato che nel passaggio parlamentare si riesca a intervenire su alcuni aspetti particolarmente discutibili. Ce lo auguriamo, e certo qualcosa dovrebbe essere possibile ottenere. Ma resta molto forte la preoccupazione per un provvedimento che – con buona pace delle dichiarazioni di principio contenute nel programma dell’Unione circa la «natura di bene comune non mercificabile» della conoscenza – rischia in realtà di far fare un altro passo avanti al progetto caldeggiato dalla parte più moderata del centrosinistra, incentrato sullo svuotamento dell’Università pubblica e sulla pervasiva adozione di finalità e criteri propri del mercato.

Benché fortemente a rischio, la situazione è tuttavia ancora aperta. In una intervista di pochi giorni fa al manifesto il ministro ha svolto un ragionamento molto interessante sul cosiddetto “3+2”, la pessima riforma Berlinguer della didattica universitaria che ha determinato la liceizzazione dell’Università e la trasformazione di molte Facoltà in una sorta di “supermarket del sapere”. Il proposito di ripensare a fondo quella riforma è di buon auspicio e lo è anche il rifiuto della malintesa logica dell’utile (miope, perché calibrata sul breve periodo) che ne costituisce il presupposto ideologico. Vi sarebbe però motivo di maggiore ottimismo ove, invece che contrapporre all’utile il bello (la «dimensione estetica del sapere», per riprendere le parole del ministro), gli si anteponesse piuttosto il giusto (la sua connotazione etica, la rilevanza della conoscenza ai fini della formazione di soggettività consapevoli di sé, dei propri diritti e delle proprie responsabilità).

E così torniamo, in chiusura, alla Finanziaria. Il problema della quale non risiede tanto nell’assenza di “bellezza”, quanto precisamente in un deficit di natura etica. Si spiega così, non solo il boom delle spese militari. Non solo il drastico taglio ai trasferimenti agli enti locali (che si rifletterà in ulteriori riduzioni dei servizi). Non solo il ritorno in grande stile dei ticket sanitari. Non solo il cospicuo finanziamento alle scuole private. Non solo la sconcertante destinazione della quota del taglio del cuneo fiscale destinata al lavoro. Ma anche – appunto – la lesina dei fondi per l’Università e la ricerca, a parole considerate strategiche per lo sviluppo del Paese.