Pochi diritti, ma molte voci

«Sono molto lieto di vedere queste manifestazioni, non conosco bene la legge Bossi-Fini, ma quando c’è di mezzo Fini con l’immigrazione so di che si tratta: di xenofobia e di un atteggiamento becero». A parlare, sul marciapiede di via Cavour nel bel mezzo della manifestazione che ieri ha portato 30 mila persone in piazza a Roma per i diritti e le libertà dei migranti, è un distinto signore con cappotto e il cappello calato sugli occhi. Sembra un cittadino qualsiasi interessato al corteo, e invece dietro c’è la sorpresa: «Vede, io sono colombiano. Sì insomma, anch’io sono un immigrato. Vivo in Italia da trent’anni, ho visto passare il tempo e tante leggi. Quando eravamo in pochi ci facevano l’inchino, adesso che siamo in tanti l’Italia sta tirando fuori il suo volto razzista». Un piccolo episodio che la dice lunga su come è cambiato il paese, alla faccia di chi continua a dire che il nostro è un paese di recente immigrazione e che per questo insiste a propinare leggi emergenziali. Un gioco che non sta più in piedi, e contro cui per fortuna ieri sono scesi in piazza non soltanto i migranti, ma anche tantissimi italiani. Una rinnovata «alleanza» a cui forse hanno contribuito anche gli episodi di quest’estate a Ceuta e Melilla e le rivolte nelle banlieues francesi, che hanno rimesso al centro una questione essenziale: le politiche migratorie modellano le politiche degli stati, dall’analisi di cosa succede lì non si può prescindere. Ma c’è anche qualcos’altro. «Gli italiani hanno smesso di essere altezzosi, di pensare che le nostre battaglie riguardano solo noi», dice Andrès del Vittorio occupato di Roma. «La nostra battaglia contro la precarizzazione del lavoro nelle università ci porta necessariamente vicino ai migranti, che scontano sulla loro pelle la precarietà più assoluta», dice ad esempio Gigi Roggero, ricercatore dell’Università della Calabria. «I migranti, come noi, sono protagonisti delle lotte sociali. Lotte criminalizzate e lo dico a poca distanza dall’ennesima dichiarazione del ministro Pisanu, in particolare sul movimento contro l’Alta velocità in Val di Susa. Per questo oggi siamo qui, tutti insieme, a chiedere anche l’amnistia per i reati connessi alle lotte sociali», dichiara invece Luca Casarini, che cammina sotto uno striscione che recita «Allons énfants de la banlieue». E se questo può sembrare un vezzo non lo è per nulla, visto che nel comizio finale, a piazza Venezia, sono stati in molti a riferirsi alle rivolte francesi per spiegare come «nessuno di noi vuole che quel livello di scontro sociale si raggiunga anche in Italia, ma se va avanti così, è inevitabile». Un modo per dire: ci siamo anche noi, dovete farci i conti.

Perché in Italia si fa finta di niente, si chiudono gli occhi, ma le persone esistono e sanno come farsi rispettare. Esempio emblematico lo spezzone dei rifugiati dell’occupazione di via Lecco a Milano. «Io non la voglio chiamare occupazione, abbiamo esercitato un nostro diritto: siamo rifugiati, dormivamo per strada, quello stabile era vuoto. Ci siamo solo entrati – sottolinea Siraj, eritreo – lo stato ha riconosciuto che ce ne siamo andati dai nostri paesi perché abbiamo subìto persecuzioni politiche e religiose, ma adesso non ci spetta niente. Invece chiediamo una casa, un lavoro, sanuità gratuita».

Ma attraverso le storie degli immigrati si parla anche di tante altre cose, come le condizioni di lavoro e questa strana globalizzazione. Hamid, marocchino di Padova, racconta del tormento di rinnovare il permesso di soggiorno ogni tre o sei mesi visto che con le agenzie interinali i contratti durano quindici giorni. Lui fino a un anno fa lavorava per una ditta che costruiva tende parasole, finché la ditta non è emigrata dove non ci sono diritti sindacali e la manodopera costa zero: «Sì – fa Hamid – alla fine ci hanno detto che in Italia ci sono pochi clienti e troppe tasse, e quindi si sono trasferiti in Romania». Ora chiede di abrogare la Bossi-Fini, ma anche di «non tornare alla Turco-Napolitano». Lui non voterà, ma sono in tanti lungo il corteo, compresi striscioni e cartelli, che chiedono il diritto di voto.

La presenza africana è certamente la più grande, enorme lo spezzone di Napoli e Caserta che non ha smesso un attimo di ballare e lanciare slogan e che in piazza ha portato uno striscione che dice «Non ci avrete mai come vorrete voi». E poi ci sono anche realtà più piccole, come la Lipa di Roma, un’associazione che riunisce le donne dell’est Europa e che distribuisce un volantino con su scritto «Quand’è l’ultima volta che ci siamo confidate? Ribellate? Che ci siamo sentite cittadine a pieno titolo?». Nel corteo anche la Federazione anarchica italiana, tante bandiere delle Rdb, ovviamente il Comitato immigrati, striscioni che arrivano dalle Marche e dall’Alto vicentino, dalla Sicilia e da Torino. Lo striscione arcobaleno della Fiom, quello dell’Arci, parlamentari dei Verdi, di Rifondazione del Pdci. «E’ una manifestazione che parla di politica, che sottolinea una soggettività non passeggera», dice Roberta Fantozzi, responsabile immigrazione di Rifondazione. Uno dei primi pullmini da cui parte musica che fa ballare porta lo striscione «Chiudere i cpt», una delle questioni su cui nessuno è disposto a fare sconti. Quando la manifestazione arriva nei pressi di piazza Venezia non riesce ad andare molto più in là. Come era prevedibile le rassicurazioni della questura sulla non contemporaneità della manifestazione dei migranti e quella organizzata da «L’ora della verità», un comitato di destra per la «verità sulla strage di piazza Bologna», non è stata rispettata. Nessuna conseguenza, se non gli slogan antifascisti urlati da dietro il Vittoriano.