Era stata presentata come una missione di peacekeeping ma si sta trasformando in una vera campagna di guerra. Dopo aver perso in Afghanistan sei soldati in poco più di un mese, le truppe britanniche hanno dovuto richiedere urgentemente l’invio di rinforzi da Londra. I militari inglesi di stanza nella provincia meridionale di Helmand, infatti, hanno incontrato una resistenza ben più organizzata e pericolosa del previsto.
A peggiorare la situazione ha contribuito la decisione, fortemente voluta dagli americani, di distruggere i campi di papaveri senza offrire ai contadini alcuna alternativa plausibile. Il che, in una zona che produce un terzo di tutto l’oppio afgano, ha compromesso definitivamente il già scarso supporto della popolazione per le truppe straniere. Quella che doveva essere solo una missione per promuovere la stabilizzazione dell’area e la ricostruzione delle infrastrutture, quindi, si è in breve trasformata in una battaglia per la sopravvivenza. I ribelli stanno dando del filo da torcere alle oltre 3mila truppe britanniche che hanno ereditato la missione dagli americani. E ora il governo di Tony Blair si vede costretto ad ammettere le difficoltà e chiedere al parlamento di approvare l’invio di altri uomini.
Ieri il neo ministro della difesa Des Browne ha cercato di sminuire la situazione durante un dibattito alla Camera dei Comuni, parlando solo di un possibile invio di nuove risorse non collegato ad un peggioramento della situazione sul terreno. Ma le dichiarazioni rilasciate alla Bbc dal generale Ed Butler, responsabile delle forze britanniche in Afghanistan, sembrano andare in direzione diametralmente opposta a quelle del suo referente politico: «Considerato il cambiamento delle circostanze ho personalmente presentato a Londra una richiesta per l’invio di rinforzi». Secondo fonti vicine al ministero della Difesa, il numero di soldati britannici che operano sotto l’egida Nato dovrebbe aumentare fino a raggiungere un massimo di 5.700, per poi stabilizzarsi a 4.500 unità.
Più che le conseguenze letali della recrudescenza della resistenza afgana, quello che preoccupa i responsabili militari della missione britannica è la mancanza di supporto alle truppe da parte dell’opinione pubblica in patria. Per il momento, infatti, lo stanziamento dell’esercito è stato seguito con una certa indifferenza. I media coprono con attenzione le spesso tragiche notizie che vengono dalla provincia meridionale dell’Iraq (dove sono tuttora impegnati più di 8.000 britannici) e la missione in Afghanistan è in qualche modo passata in secondo piano. Fino ad ora, inoltre, il governo ha sempre cercato di presentare l’incarico come una missione soft, rivolta più a conquistare i cuori della gente che a combattere i ribelli.
Ma da quando le bare hanno cominciato a rientrare anche da Helmand, i generali sono preoccupati che a casa si possa materializzare un movimento «no war» come quello che ha accompagnato tutta la campagna irachena. Con l’aggravante di non aver preparato il terreno a sufficienza nell’opinione pubblica, spiegando le ragioni e gli obiettivi della missione. Non a caso, la settimana scorsa lo stesso generale Butler ha definito il supporto del pubblico britannico come uno dei fattori principali da cui dipende il successo della campagna afghana: la necessità di informare gradualmente i cittadini, quindi, spiegherebbe bene la riluttanza del ministro ad ammettere le difficoltà incontrate sul terreno.