Più partito, più movimento

FIRENZE – Più partito, più movimento. E magari ripensare la presenza nel governo. E’ ciò che sembra chiedere al prossimo congresso di Rifondazione, a voler fare una sintesi, l’appello partito alcune settimane fa da Firenze (“Un congresso per rilanciare i movimenti e l’autonomia del Prc”) e che s’è andato dilatando, all’indomani del 20 ottobre, visto come «momento costituente per il rilancio delle ragioni dei conflitti», fino a raccogliere 1300 firme in 65 federazioni di 17 regioni, da 125 che erano i pionieri fiorentini. Poi, domenica scorsa, la prima assemblea nazionale in una sala della provincia di Firenze zeppa di militanti del Prc, 250 ne sono stati censiti: dalla delegata Vodafone all’operaio della Zanussi, dai parlamentari (Mantovani, Pegolo, Giannini) alla valsusina Nicoletta Dosio, dal leader Fiom Cremaschi alla vicentina Claudia Rancati, dai romani dei circoli Longo e Menchù ai cuneesi, ai siciliani, fino al consigliere provinciale fiorentino, Sandro Targetti, ex capostazione, tra i promotori dell’appello, cui è toccata l’introduzione. «Non è la presentazione di una nuova mozione – ha spiegato più tardi a Liberazione – però lo può diventare».
Tutto è nato a Firenze quando s’è coagulata un’area critica (battuta 51 a 44 in Cpr) sull’ingresso in Giunta del Prc considerato dai dissidenti una «scelta politicista» su un documento blindato da Martini «a chiudere gli spazi di manovra per le battaglie dei movimenti contro alta velocità, inceneritori, rigassificatori». Una vicenda reputata «emblematica» che ha stimolato una riflessione sul «disagio diffuso nel partito per la deriva governista – aveva detto nell’introduzione Targetti – sulla crisi di radicamento, l’emorragia di tessere, sulla scorciatoia organizzativa della Cosa rossa (solo un’operazione d’immagine) e sulla risposta burocratica contro il dissenso». Al centro, gli effetti di 18 mesi di governo dell’Unione sui rapporti tra la sinistra e la società, sull’impermeabilità del centro alle aspettative di cambiamento, sulla fragilità del partito, su un’azione di governo reputata inadeguata agli obiettivi (più volte citate la crescita delle spese militari, la continuazione delle missioni, la perdita di potere d’acquisto dei salari, la Tav, i diritti civili negati). «Serve un’inchiesta nel nostro blocco sociale per capire se il limite è stato superato. La soluzione non è nel “patriottismo” di partito ma neanche in incomprensibili limitazioni di sovranità maturate nei gruppi dirigenti», termina l’introduzione elaborata collettivamente da un gruppo di lavoro fiorentino e bolognese che ora si allargherà a delegazioni di ogni regione. Prima riunone, a Roma, alla fine della settimana.
All’attivo degli “autoconvocati” ci sono già contributi scritti da Bologna, Liguria, Caserta, Calabria, Piemonte. Sull’ossatura originaria tosco-emiliana dell’appello – esponenti più movimentisti della prima mozione – s’è innestata l’area dell’ Ernesto e singoli provenienti da altre mozioni. In linea con l’impostazione, la prima posizione pubblica dell’assemblea: tutti a Vicenza il 15 dicembre con un appello a Viale del Policlinico perché sposti il Cpn fissato per quel giorno, o lo traslochi proprio a Vicenza. «Le autoconvocazioni si fanno quando i gruppi dirigenti vanno per conto loro», dirà Giorgio Cremaschi ribattezzando l’assemblea e stigmatizzando «la logica autoreferenziale e distruttiva del gruppo dirigente Prc: le idee della destra sono più forti di prima e questo è il frutto peggiore del centrosinistra». La battaglia politica dovrà allora definire una «exit strategy dal governo». Anche sul processo costituente a sinistra Cremaschi non farà concessioni. Vi legge, infatti, «lo stesso linguaggio nuovista e autodistruttivo con cui si sciolse il Pci». «La nostra presenza nel governo sta indebolendo i rapporti di forza nel Paese – aggiunge Roberto Sconciaforni, capogruppo al Comune di Bologna – alla delusione succede la disillusione. Ma, anziché rimettersi in sintonia con i conflitti si propone la Cosa rossa, ossia il governo eletto da mezzo a fine e la cancellazione dell’identità comunista». Quanto sia difficile stare nei movimenti e nel governo dei 12 punti lo raccconta Nicoletta Dosio, della Val Susa dove Prc e No Tav sono nati simultaneamente.
Anche per Ramon Mantovani serve un «dibattito congressuale aperto, lungo, senza bugie o doppie verità». A suo avviso il tema del governo «dovrebbe essere centrale (sebbene la maggioranza lo voglia tenere in secondo piano) perché allude al nostro futuro: avevamo previsto un circuito virtuoso, un aumento della domanda dai movimenti. Non è avvenuto anche per errori che abbiamo compiuto». E la Cosa rossa? «Sarebbe una sinistra “light”, decaffeinata, e romperebbe la nostra internità al movimento mondiale contro la globalizzazione», dice il deputato milanese. Sotto accusa la linea del congresso di Venezia «che non ha trovato conferme perché il blocco di interessi della coalizione è intimamente connesso con le pulsioni all’americanizzazione», dirà Gianluigi Pegolo rivendicando «autonomizzazione dal governo».
Più volte l’assemblea verrà interpretata come una possibile inversione di tendenza alla disillusione e un superamento degli steccati del precedente congresso. «Diteci cosa dobbiamo fare», chiede il senatore Giannini alludendo alla consultazione mai avvenuta sui temi cruciali. Ci sarà chi reclama la stesura di un documento congressuale «chiaro su governo e Cosa rossa, senza politichese» (Marco Veruggio, ex mozione 3, Genova). «Meglio un documento alternativo che degli emendamenti che non circolerebbero», dice Leonardo Masella, capogruppo in Emilia. «Non ci interessa la somma delle opposizioni di Venezia, né l’autosufficienza», chiarisce Alessandro Bernardi, responsabile movimenti a Bologna. Molto sentita la questione del simbolo: la romana Alba Paolini, ad esempio, si chiede se l’autoesclusione del simbolo non sia un cedimento all’ossessiva campagna revisionista anticomunista. Chi interviene racconta la difficoltà di lavorare nei territori con gli altri soggetti coinvolti nella Cosa rossa, in particolare Sd (Agostino Giordano dei Gc di Bologna), e Pamela Conti, bolognese anche lei: «Ci saranno i lavoratori nella Cosa? E Mussi dirà no alla legge 30?». Viene segnalata l’urgenza di «restituire alla base la capacità di essere soggetto determinante», di rilanciare la lotta contro la guerra e le basi (Sergio Spina, consigliere provinciale a Bologna), di «cercare una strada che rianimi il partito», dice il fiorentino Riccardo Torregiani dopo aver lamentato la «presenza rarefatta nei movimenti». Tanto sul percorso “fiorentino” quanto sulla Cosa rossa, il bresciano Felice Mometti di Sinistra critica, sarà il più scettico: «Ripartiamo dal milione di No all’accordo del 23 luglio e dalla manifestazione delle donne, formuliamo una proposta anticapitalista ai movimenti che stanno qui e ora».