Dopo il voto di fiducia di ieri al maxi-emendamento che recepisce il Protocollo sul welfare, Rifondazione sembra una polveriera sul punto di esplodere. La Cosa rossa pure. Dall’inizio della legislatura, dicono al quartier generale del partito, si è incassato poco e niente. E così non si può andare avanti. La parola d’ordine di queste ore, dopo l’intervento di Franco Giordano alla Camera, si riassume nella formula «verifica vera», con l’accento posto sul «vera». D’accordo Sd: «Da gennaio non ci sono più alibi. Chiediamo alla maggioranza che decida dove andare e se ha cambiato idea sulla lotta alla precarietà», afferma la capogruppo Titti di Salvo. E il verde Paolo Cento dice: «La stagione dell’Unione si è chiusa. Va ricostruito un nuovo patto programmatico».
Questo significa che Rifondazione & Co andranno al confronto con Prodi («E’ l’ultima occasione» ha detto il segretario del Prc intervenendo in aula) non più in nome del programma dell’Unione, ma solo su alcuni punti: la lotta alla precarietà su tutti, una exit strategy dall’Afghanistan,
l’attuazione della legge Amato Ferrero. E il minimo richiesto, dicono a via del Policlinico, per la permanenza al governo in nome della quale il partito starebbe subendo una emorragia di consensi nonché una rivolta interna alla vigilia di un congresso delicato (anzi delicatissimo). Ma, per quanto il livello d’insofferenza sia già ben oltre la soglia di allarme, l’ipotesi di una rottura, per ora, non viene ancora messa in conto. E se per qualcuno (le minoranze del Prc che chiedono una verifica interna) questa ipotesi assomiglia tanto a un “continuiamo a farci del male”, per i bertinottiani il ragionamento suona più o meno così: da Prodi ormai non ci possiamo più aspettare nulla, e nemmeno da questo governo, che è indifendibile; tuttavia ci sono due obiettivi da raggiungere a tutti i costi. Il primo è la legge elettorale. Il secondo è la Cosa rossa. Poiché tanto secondari non sono – anzi equivalgono quasi al primum vivere -vengono anche messi in conto altri rospi da ingoiare. A partire dal pacchetto sicurezza, da oggi in discussione al Senato dove si potrebbe riproporre il film già visto sul welfare: l’accordo in commissione c’è ed è accettabile anche su una norma alla quale Rifondazione tiene molto: quella per cui i cittadini comunitari espulsi durante il periodo che passa tra la sentenza e l’allontanamento vero e proprio non debbano soggiornare nei Cpt. Ma se in aula Dini dovesse votare col centrodestra allora la sinistra dell’Unione voterebbe contro. Dice il sottosegretario all’Economia Alfonso Gianni: «Tira una brutta aria. Ma mentre sul welfare ci sono sempre dei margini per accettare o meno compromessi, sui diritti di libertà è difficile stabilire una linea mediana. I diritti o ci sono o no». Tradotto: sulla sicurezza il Prc ha messo in conto di votare no.
Fin qui i rospi da ingoiare. Sugli obiettivi da raggiungere Gianni non usa mezzi termini: «Questa legislatura di importante può dare una legge elettorale che garantisca la dialettica politica. E il modello che preferiamo è quello tedesco». Rispetto alla disponibilità iniziale sul vassallum ora Rifondazione è meno incline a trattare sul tasso di spagnolità della legge (vai alla voce: dimensione dei collegi) soprattutto dopo l’apertura di Berlusconi nella direzione del modello gradito al segretario del Pd. E quindi, dicono, la base di partenza deve essere il modello tedesco. Anche perché – e non è un dettaglio – rispetto a un sistema che premia i partiti maggiori come il vassallum, quello tedesco offre più garanzie di agibilità politica anche alle forze medio-piccole. Verdi e Pdci non sono d’accordo ma al quartier generale di Rifondazione sul punto si dichiarano irremovibili. E la Cosa rossa? Gli stati generali si faranno: tutti i partiti sono al lavoro sull’organizzazione di una due giorni di dibattiti tematici su welfare, diritti, ambiente, politiche internazionali. Ma sul resto, ad oggi, è certa una cosa sola: in quella data si consumerà la rottura definitiva con la Cgil. E la Cosa rossa si attesterà su posizioni di critica da sinistra al sindacato, a partire dal tema della lotta alla precarietà. Ieri se ne è avuto l’anticipo. Il presidente della Camera Bertinotti è intervenuto sul metodo seguito sul Protocollo, usando parole dure: «Il rapporto tra governo e parti sociali, che è importante per la formazione delle decisioni, non può mettere in mora il dibattito parlamentare altrimenti si passa da una democrazia parlamentare a una Repubblica parlamentare che subisce una sospensione di sovranità sostituita da un aspetto neocorporativo». Alfonso Gianni, al Riformista, la spiega con meno aplomb istituzionale: «Vedo una involuzione nel pensiero della Cgil sia riguardo al rapporto con i suoi quadri sia sulla concezione della democrazia. La nostra è una Repubblica fondata sul Parlamento, non uno Stato corporativo. Quindi nemmeno un sindacato può dire che un accordo non si tocca». Titti Di Salvo, che certo alla Cgil non è estranea, ha usato in aula toni solo un po’ più sfumati: «L’accordo è un passo avanti anche se non sufficiente. Ma il governo, chiedendo la fiducia su un testo diverso da quello votato in Commissione, ha aperto un problema nei rapporti col Parlamento». Considerate le posizioni della Cgil, i suoi rapporti con la tutta la Cosa rossa sono ai titoli di coda.