“Pirateria” musicale, le lacrime delle major

Da qualche anno l’industria discografica piange calde lacrime e chiede interventi severi contro la “pirateria”, identificata come la prima causa della crisi del settore. Gli strepiti sono tanto forti da coprire qualsiasi tentativo di discutere nel merito. Da piccoli ci raccontavano la storiella del coccodrillo che, dopo aver sbranato la sua vittima, accompagnava la digestione con il pianto. Per le major è uguale. Sono lacrime da coccodrillo che hanno un sacco di precedenti storici. Il più eclatante risale al 27 novembre 1981 quando Elton John, Gary Numan, Cliff Richard, i 10CC e i Boomtown Rats (già, proprio il gruppo dell’allora non ancora “santo” Bob Geldof!) vengono arruolati come testimonial di una campagna pubblicitaria lanciata dalla British phonographic industry, l’associazione dei discografici britannici dal titolo: “Home taping is killing music” (la riproduzione casalinga uccide la musica). L’obiettivo della campagna è la riproduzione dei dischi su cassette, accusata di essere causa di un calo delle vendite che sta mettendo in crisi le case discografiche. Si arriva anche a obbligare i dj a parlare qualche secondo sulla musica per non consentire la registrazione dalla radio. In realtà quella che viene individuata come causa non è che l’effetto di una crisi mondiale dell’intero settore. All’inizio degli anni Ottanta, infatti, le major discografiche, dopo aver contrastato ferocemente le iniziative indipendenti che negli anni precedenti avevano guidato le innovazioni caricandosene i rischi, non sanno più che pesci pigliare. Lungi dal guardare in faccia alla realtà cercano un nemico fittizio: le musicassette registrabili. Non tutti si accontentano, però, di dar la colpa ai registratori. In Italia, per esempio, nello stesso periodo le case discografiche agiscono sulla leva dei prezzi, ripubblicando antologie in collane economiche e inventando soluzioni alternative come i Q-disc, un disco di grande formato a medio prezzo che contiene solo quattro brani. I risultati sono incoraggianti e dimostrano che più che la riproduzione casalinga sono i costi e la mancanza di idee a uccidere la musica. Anche in Gran Bretagna c’è chi si dissocia dal fronte anti-registrazioni. E’ la piccola ma combattiva Island Records di Chris Blackwell che getta benzina sul fuoco lanciando le cassette “One plus One” che su un lato contengono un intero album di uno degli artisti della scuderia e sull’altro offrono la stessa durata di nastro vergine da registrare. Insomma, con un po’ di reggae, gli U2 e Bruce Springsteen (giusto per fare i primi nomi che vengono in mente) la crisi finisce dietro alle spalle e della guerra alle cassette audio non ci si ricorda nemmeno più. Oggi che la crisi morde di nuovo l’industria discografica torna all’antico: punta il dito sull’Iva e sulla riproduzione casalinga, in particolare quella via Internet. Ma è davvero così? Qualche anno fa Claudia Mori, l’amministratrice delegata del Clan Celentano, mandava tutti a quel paese accusando il sistema discografico di essere sordo alle richieste dei consumatori. Al centro della polemica c’era il prezzo dei dischi, ma anche la politica di cartello delle multinazionali della musica, accusate di aver smantellato il ricco reticolato delle produzioni nazionali. Ora che la crisi si è fatta più acuta, l’unica risposta dell’industria discografica è quella di chiedere interventi urgenti di sostegno al settore. E se fosse venuto il tempo di rimettere in discussione una politica culturale, produttiva e commerciale dimostratasi fallimentare? Anni di disinteresse e incultura pesano su un dibattito che meriterebbe di essere affrontato con maggior serietà. Nel nostro paese si sono distrutti, venduti e dispersi i cataloghi di quella che era stata una delle più importanti strutture discografiche pubbliche del Novecento in un’ansia di privatizzazione che non ha avuto pari in nessuna altra parte del mondo. Ha senso, quindi, fingere che il problema si possa risolvere soltanto con la battaglia contro la pirateria o per la diminuzione dell’Iva, senza affrontare nel merito il significato del rapporto tra musica popolare e cultura? E in che modo si pensa di ricucire lo “strappo” creato tra i fruitori e i produttori dallo smembramento della distribuzione specializzata? La politica delle major in questi anni è stata quella di chiudere il cerchio producendo musica di plastica, da vendersi all’interno di impersonali megastore, eliminando la piccola distribuzione. E’ saltato, cioè, il rapporto fondamentale su cui si reggeva gran parte del valore culturale dello scambio tra consumatore e rivenditore: il piacere di ragionare, discutere, farsi guidare che fino a una quindicina d’anni fa aveva trasformato i negozi di dischi in punti d’incontro e di discussione. Una seria riflessione aiuterebbe anche a capire perché Internet più che un luogo di “pirati”, sia ormai diventato un grande mercato mondiale multietnico di prodotti discografici che non si riescono a trovare nei massificati e anonimi megastore delle nostre città. All’elenco delle questioni, però, manca ancora un particolare: gli artisti. Fino a quando si considereranno fuori da questo discorso?