Pio La Torre, l’uomo che voleva “prosciugare” la mafia

La lotta per l’occupazione delle terre incolte, 200 ettari di feudo abbandonato dai latifondisti a Bisacquino, e la richiesta di esproprio e assegnazione a braccianti e contadini senza terra gli costarono una reclusione di 17 mesi all’Ucciardone. Aveva 23 anni ed era passato in un colpo solo dall’università alla Federterra alla galera, dov’era rinchiuso quando gli nacque il primo figlio. Famiglia poverissima, il richiamo dei diritti dei più poveri tra i poveri di Sicilia fu un imperativo irresistibile: il primo per Pio La Torre.
Ne seguirono molti altri, ché a quei tempi, negli Anni Cinquanta Sessanta Settanta, essere militante e dirigente del Partito comunista quello voleva dire: un impegno a rotta di collo, costasse quello che costasse, per i diritti, la legalità, il lavoro, i bisogni dei più umili, la redenzione di una terra come la Sicilia, violata dal banditismo, dai fascisti, dagli americani, dai mafiosi di ogni epoca e risma.
E da una classe dirigente che l’ha sfruttata, sventrata, svenduta, corrotta, rosicchiata nelle coste e nelle zolfare; nei giardini della Conca d’Oro e negli orti e nelle serre; sui litorali invasi dai liquami e nei piani regolatori della speculazione edilizia; con il grande affare dei “signori dell’acqua”, il “mare color del vino” delle distillerie mafiose, il business dei rifiuti, le discariche abusive, le opere pubbliche e tutto il gran traffico delle macchine movimento terra per la costruzione di strade cantieri porti aeroporti.
Un altro impegno di La Torre, condotto senza risparmiarsi nonostante il tiepido assenso dei vertici nazionali del suo stesso partito, fu quello per la mobilitazione popolare e la raccolta di un milione di firme contro l’installazione dei missili Pershing e Cruise a Comiso: «122 testate nucleari puntate contro il Mediterraneo, contro la pace», diceva ai compagni e alle compagne cui chiedeva incalzante, aggressivo – e da quello avrebbe misurato affidabilità e capacità politica – impegni precisi, concreti, quotidiani: nei quartieri, nei paesi, nelle sezioni e nelle cellule, per raggiungere il milione di firme promesso – minacciato – sotto una petizione al governo «per fermare – lui credeva, ma fu sconfitto – quel progetto guerrafondaio» e «suscitare larghe manifestazioni unitarie – insisteva, e vinse – di protesta popolare» alle quali parteciparono centinaia di migliaia non tanto di militanti comunisti quanto di giovani pacifisti venuti da mezza Europa.
E, sopra tutto, l’impegno contro la mafia. A cominciare dalla relazione di minoranza che porta il suo nome e che vale la pena ancora oggi andare a rileggere, perché nel 1976 raccontava già tutto e diventerà infatti un libro dal titolo emblematico di Mafia e potere politico , presentata a nome del Pci alla prima Commissione parlamentare antimafia.
L’ultima proposta, firmata con il democristiano Virginio Rognoni, riguardava il riconoscimento del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso – diventerà l’articolo 416-bis del Codice penale – che prevedeva il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti provenienti da estorsioni, usura, riciclaggio, droga, prostituzione, e introduceva nuove norme per il controllo sugli appalti pubblici e l’obbligo della certificazione antimafia.
Una proposta che non passerà nemmeno dopo l’uccisione del parlamentare comunista, ma soltanto quattro mesi dopo, il 13 settembre, diventata in fretta e furia la legge 646, quando la scia di sangue delle stragi eccellenti travolgerà anche il prefetto di Palermo e la sua giovane moglie, il 3 settembre in via Isidoro Carini: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato nominato con poteri speciali proprio all’indomani dell’attentato a La Torre e Di Salvo.
Nella proposta di legge, che diventerà appunto la “Rognoni-La Torre”, si sosteneva che per colpire davvero la mafia bisognava intervenire sui patrimoni e nelle tasche; cioè in quello che Cosa Nostra aveva di più caro: l’accumulazione criminale. E si ipotizzava anche che i beni sottratti alla criminalità organizzata e ritornati nella legalità dovessero essere restituiti alle comunità locali che ne erano state depredate con la violenza e la paura.
Un impegno, quello in Commissione antimafia, andato avanti per tutti i dieci anni del suo mandato parlamentare, dal 1972, quando venne eletto per la prima volta, fino a quella mattina di venticinque anni fa, il 30 aprile 1982, quando un commando di killer mafiosi lo assassinò a colpi di mitraglietta assieme al suo autista e fedele compagno Rosario Di Salvo, un giovane di trent’anni padre di tre bambine che gli faceva anche da guardaspalle.
Andavano, verso le nove di mattina, Pio e Rosario, chiacchierando in macchina del più e del meno: dell’ultima riunione in qualche paese in giro per la Sicilia; della prossima non facile direzione del Partito, prevista per quella mattina, in preparazione di ulteriori iniziative contro i missili. Due persone normali che sono in confidenza e che si vedono tutti i giorni, condividendo le parti piccole e le grandi avventure del comune impegno politico; due amici che vanno via tranquilli, senza sospetto, per quelle stradine anguste dietro la vecchia città alle spalle di Palazzo dei Normanni, lungo il muro di cinta della Caserma Turba.
Erano bellissimi! Rosario era un giovane gentile e fascinoso. Capelli ricci e occhi verdi, ti guardava e sorrideva. Sua moglie Rosa lo teneva d’occhio con impegno. Ed era sempre di buon umore e sempre pronto, in attesa che si concludessero le infinite riunioni, ad accompagnare o riprendere a scuola i figli dei vari dirigenti che in quelle riunioni affondavano fino a perdere il senso del tempo e della realtà.
Pio era un uomo aitante, alto, snello, occhi scuri inquieti, bocca pronta alla battuta e al sorriso sarcastico con cui ti fulminava, ma anche a una ruvida bonomia che disarmava. Come quella volta, l’ultimo 8 marzo, quando aveva detto alla responsabile femminile che di politica non capiva niente, ma poi le aveva mandato un cesto di ortensie azzurre con un biglietto bizzarro: «Io non capisco niente di donne».
Quella mattina di un 30 aprile qualsiasi, stranamente uggioso per Palermo, di solito già piena del profumo di zagara e dei piccoli globi gialli dei nespoli dietro ai muretti a secco degli orti, se ne andavano in macchina per vecchie strade e vicoli, sempre gli stessi, tra la casa affittata in Corso Pisani da quando La Torre era ritornato a Palermo come segretario regionale del partito, otto mesi prima – lui, un migliorista, con una segreteria tutta occhettiana – e Corso Calatafimi, dov’era la Villa Palagonia, sede della federazione palermitana e del comitato regionale del Pci.
Non ci sono più arrivati. I killer su due moto li affiancano, gli tagliano la strada. Rosario capisce qualcosa, fa in tempo a estrarre la pistola e a sparare qualche colpo, a vuoto. Pio ha una delle sue reazioni rabbiose e cerca di scalciare fuori dal finestrino in un inutile atto di difesa. Resterà così, crivellato dai colpi, con una gamba che pende dalla fiancata. Rosario, colpito in testa e in faccia, rimarrà riverso al posto di guida, appoggiato all’indietro come se dormisse.
Qualcuno, anonimo, chiama la polizia. Arriva la prima volante, capisce di chi si tratta, allerta la Questura, la Prefettura, i magistrati, i giornalisti. Giungono tutti insieme, sgommando, quando non c’è più niente da fare.
Vengono avvertiti i compagni in attesa in Corso Calatafimi, a quattro passi. Arriveranno di corsa, a piedi, senza fiato, increduli. Qualcuno si inginocchia, qualcuno si mette a piangere, qualcuno corre ad armarsi gridando: «Lo ammazzo! Lo ammazzo!». Uno degli uomini più vicini a Pio non dimentica il ghigno feroce di Vito Ciancimino che in Consiglio comunale gli aveva detto, gonfio d’odio: «La Torre, lo conosco. E’ venuto al mio paese e in un comizio mi ha accusato di essere un mafioso e di essermi arricchito con la politica».
Dopo, quel grido verrà interpretato come un’accusa interna, uno dei tanti depistaggi che segneranno la tormentata vicenda dei processi per quell’omicidio politico-mafioso. Sarà la testimonianza di un pentito a chiarire che gli esecutori furono Giuseppe Lucchese e Antonino Madonia. Ma sul movente e sui mandanti rimane il buio fitto. Si continua a dibattere sulla pista dei missili piuttosto che su quella del sequestro dei beni, per la relazione all’Antimafia sui rapporti tra mafia e politica anziché per l’impegno che stava imprimendo al partito in direzione della legalità, mettendo in discussione anche i rapporti del Pci con alcuni istituti bancari e con settori imprenditoriali, come i “quattro cavalieri” di Catania Rendo-Graci-Costanzo-Finocchiaro, nonché le pratiche e le alleanze delle cooperative e delle associazioni dei produttori. Un impegno politico che disturbava, e di molto, le trame occulte degli affari in città e in tutta la Sicilia.
Basta questo? Bastava, per far fuori come un cane il segretario regionale del Partito comunista italiano? Anche di meno, dicono alcuni: Armando Sorrentino, avvocato della famiglia La Torre nei processi che si sono susseguiti; o Claudio Fava, epigono e a sua volta segretario regionale di quella formazione politica, oggi parlamentare europeo, figlio del direttore de “I Siciliani” Beppe Fava, morto ammazzato dalla mafia catanese.
Sta di fatto che Pio La Torre era un pericolo per tanti, poiché incarnava un impegno e un imperativo a proposito del quale Achille Occhetto scriverà, nella prefazione al libro di Agostino Spataro Mafia & Missili : «Occorreva spezzare quell’intreccio d’interessi economici e politici che la mafia ha costruito sia con i capitali illeciti e le sue alleanze, sia con le credenziali internazionali e militari acquisite svolgendo quella funzione anticomunista e antidemocratica che ha consentito in Sicilia il proliferare silenzioso e indisturbato di basi militari, della Nato e degli Stati Uniti, rivitalizzando, come nel 1943, i noti collegamenti tra mafia siciliana e servizi segreti americani».
E poi non ci si deve scordare che quell’assassinio si colloca, nella primavera dell’82, esattamente a metà strada sulla pista innondata di sangue degli omicidi eccellenti: tra la fine del 1970, quando scompare il giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro e in via dei Capuccini viene ucciso il procuratore Pietro Scaglione, primo magistrato caduto sotto i colpi di lupara, e la metà del 1992, quando a saltare in aria saranno Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due dei magistrati più prestigiosi e più esposti del pool antimafia.
Prima del segretario del Pci era stato ucciso il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il 6 gennaio 1980. E il segretario provinciale della Dc Michele Reina, e Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo. Verrà assassinato anche Salvo Lima, uno dei politici più vicini alle cosche, il 12 marzo di quel ’92 della “grande mattanza”, alla rotonda di Mondello.
E poi giornalisti come Giovanni Spampinato, Cosimo Gristina, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Mario Francese, Mauro Rostagno. E i magistrati Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Antonino Saetta, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, Rosario Livatino, e con loro gli uomini delle scorte e poliziotti e carabinieri come il colonnello Russo nel bosco di Ficuzza, ed Emanuele Basile nella piazza di Monreale, e Boris Giuliano e Ninni Cassarà: tra le forze dell’ordine oltre 60 morti nell’olocausto mafioso.
Per non dimenticare imprenditori come Libero Grassi, sacerdoti come Don Puglisi, funzionari onesti come Giovanni Bonsignore, sindacalisti, comuni cittadini e le vittime di vendette trasversali come il piccolo Di Matteo e i figli di Tommaso Buscetta. Persino l’esattore Ignazio Salvo, amico degli amici, “sparato” sul vialetto della sua villa.
Quindici anni di terrorismo mafioso, fino a quel 1992 in cui le stragi ordinate dai corleonesi raggiunsero il loro punto più feroce ed esibito, il 23 maggio con l’attentato di Capaci e il 19 luglio con l’autobomba di Via D’Amelio; che produrranno però, finalmente, la reazione dello Stato con l’operazione “Vespri siciliani” e della società civile con il “movimento dei lenzuoli”.
Oggi la mafia è rintanata. Si nasconde. Si annida nei salotti bene e nel giro delle amicizie importanti. Pratica la sommersione decisa da Bernardo Provenzano perché non è più il tempo del sangue ma degli affari: quelli della borghesia mafiosa, dei rapporti organici tra Cosa Nostra e potere istituzionale; quelli che nascono e si alimentano in un tessuto sociale e culturale e attraverso assetti economici e politici permeabili alla corruzione, alla complicità, alle coperture reciproche, allo scambio di favori contro voti, di seggi contro affari. Come scriveva trent’anni fa Pio La Torre.
Chi ha dei dubbi dia una sbirciata alle decine di liste e migliaia di candidati alle elezioni amministrative del 13 e 14 maggio; capirà che in palio non c’è lo scranno a Palazzo delle Aquile, che pure assicura un bel gruzzolo a tanti consiglieri altrimenti senza arte né parte, ma il prossimo sacco di Palermo.