A 37 anni dalla morte del ferroviere anarchico brucia ancora la sentenza definitiva di ”malore attivo” con cui è stato archiviato il suo caso, contro ogni perizia medico-scientifica. Per una contestualizzazione di quegli anni oscuri, di grande interesse la ricostruzione della vedova, Licia, che in un libro intervista del 1982 ripercorre l’odissea di più di dieci anni di processi, accuse infamanti, insabbiamenti e violenze sotto l’ombra dei servizi segreti
La notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, da una finestra della questura milanese di via Fatebenefratelli un uomo precipita nel vuoto. Si chiama Giuseppe Pinelli e ha quarantuno anni. È un ferroviere, sposato, con due bambine, ma ciò che più conta è un anarchico. Proprio il suo essere anarchico lo porta inesorabilmente verso quel quarto piano nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. Il suo essere anarchico e una crudele ragion di Stato contro la quale Pino Pinelli non può reagire.
Così muore poco dopo essere stato trasportato all’ospedale Fatebenefratelli di Milano, senza che la moglie sia stata avvertita. Sono due giornalisti, forse del Corriere della sera, a suonare alla porta di Licia Pinelli, esattamente all’una e cinque, in piena notte: «dev’essere successa una disgrazia a suo marito» le dicono. Perché Pino è caduto da quella finestra? Si è suicidato, dicono. Perché la questura non ha avvisato la famiglia? «Ma sa, signora, abbiamo molto da fare» avrà a dire Calabresi.
Illuminanti ed essenziali le parole di Licia Pinelli per chiunque voglia cimentarsi con un periodo storico complesso e violento come quello che va dalla fine degli anni Sessanta fino a tutti gli anni Settanta. Parole pronunciate in una lunga intervista con Piero Scaramucci, giornalista, che ha contribuito alle inchieste del Movimento dei giornalisti democratici. Da queste «confidenze» e riflessioni, da questo dialogo tra il giornalista e l’intervistata, fra storia personale e storia di un’intera epoca, nasce un libro: Licia Pinelli, una storia quasi soltanto mia di Piero Scaramucci, Arnoldo Mondatori editore, Milano 1982. Un racconto che, passando per la tragedia di una famiglia condannata a subire i cinici disegni di una democrazia in crisi, attraversa gli anni più bui del nostro recente passato.
Licia Pinelli parla dei processi, delle lotte che affronta per stabilire la verità, dell’annichilimento della sua vita privata pur di poter comprendere. Questa intervista al momento è introvabile e attende, impaziente, una riedizione. Una testimonianza che proprio nella compostezza che la caratterizza e nell’esclusione di quei toni aspri o messianici impiegati da tanta letteratura sugli anni di piombo trova il suo punto di forza. Licia Pinelli mostra, alcune volte con stupefacente freddezza e lucidità, le incongruenze, le menzogne, l’opera di depistaggio costruita attorno alla morte del marito, accusando non una persona, non un gruppo politico, ma la Giustizia e lo Stato. Non ci sono polemiche, nessuno spiegamento di vessilli politici e ideologici, soltanto la volontà di capire, di raccontare un dramma personale e allo stesso tempo collettivo: la strage di Stato di piazza Fontana e l’arresto e la morte di gente innocente come Giuseppe Pinelli.
Il 12 dicembre è il giorno della strage di piazza Fontana, una bomba alla banca dell’Agricoltura provoca la morte di diciassette persone. Un paio d’ore dopo Giuseppe Pinelli viene portato in questura: «È stato invitato. Calabresi l’ha trovato in via Scaldasole, alla sede anarchica e gli ha detto di seguirlo con il suo motorino» racconta Licia Pinelli. Viene trattenuto e interrogato per tre giorni. Circa a mezzanotte tra il 15 e il 16 in quella stanza succede qualcosa. Ci sono il commissario Luigi Calabresi (che al momento del «volo» pare fosse assente), il capitano dei carabinieri Lo Grano, i sottufficiali Panessa, Mucilli, Mainardi, Caracuta e il capo dell’ufficio politico Allegra. Lo stato di fermo per il ferroviere è scaduto da ventiquattro ore, ma continua ad essere trattenuto illegalmente in questura.
Mentre viene interrogato Pinelli vola giù dalla finestra e si schianta al suolo privo di sensi. Oltre un’ora dopo la madre del Pinelli si precipita al Fatebenefratelli e trova l’ospedale piantonato dalla polizia. Nessuno le dà retta, nessuno l’ascolta, nessuno le fa vedere il figlio: «hanno aspettato che fosse ben morto». Marcello Guida sostiene che si sia suicidato perché «fortemente indiziato di concorso in strage. Il suo alibi era crollato. Si è visto perduto. Si è trovato come incastrato. È crollato. È stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa».
Il 3 luglio del 1970 la morte di Pinelli viene archiviata come suicidio. Il 27 ottobre del ’75, quando ormai l’innocenza di Pinelli nella strage del 12 dicembre è cosa nota, il giudice D’Ambrosio archivia definitivamente il caso ipotizzando un «malore attivo», non già un suicidio, che avrebbe proiettato Pinelli fuori dalla finestra. Tutto ciò nonostante la firma da parte di tredici fisici di una relazione in cui affermano che «in base alle prove effettuate Pinelli fu spinto dalla finestra». Piero Scaramucci ricorda la sentenza istruttoria di D’Ambrosio: «è vero che Pinelli non si è ucciso, è vero che i poliziotti hanno mentito; ma le bugie sono state dette per compiacere i superiori che puntavano a incriminare gli anarchici e un suicidio avrebbe fatto comodo; e poi non esiste prova che Pinelli sia stato ucciso, e “la mancanza assoluta di prove che un fatto è avvenuto equivale alla prova che un fatto non è avvenuto”.
Per D’Ambrosio rimane solo l’ipotesi verosimile che Pino si sia sentito male e sia caduto dalla finestra». Guido Viale, su Micromega di questo mese (dicembre 2006), mette in luce le evidenti contraddizioni e la poca credibilità della ricostruzione dei fatti di tale sentenza: «il “malore attivo” dell’anarchico, trattenuto e interrogato illegalmente per tre giorni in questura per incastrare Valpreda, malore che lo avrebbe proiettato fuori da una finestra del quarto piano, spalancata per caso in pieno inverno, è un apax legómenon, cioè una sindrome che non trova riscontri, né precedenti nella letteratura medica».
L’anarchico Pietro Valpreda, accusato fra le varie cose da un identikit-farsa e tramite procedure irregolari, subirà più di due anni di carcere e quattordici di processi e diffamazioni prima di potersi liberare dell’incubo di sentirsi accusato della strage di piazza Fontana. Una strage in realtà di matrice fascista con un più che probabile coinvolgimento dei servizi segreti italiani e stranieri. I colpevoli comunque non sono mai stati assicurati alla giustizia. I neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura e il giornalista Guido Giannettini nel 1979 vengono condannati all’ergastolo a Catanzaro per le bombe del 12 dicembre; nell’81 vengono assolti per insufficienza di prove.
Magistrati e poliziotti che sin dall’inizio provano a seguire la pista che coinvolge la destra, anziché gli anarchici, sono stati regolarmente allontanati dai propri incarichi. A Padova, prima della strage, il commissario Pasquale Juliano, che seguiva i movimenti dei neofascisti Freda e Ventura, responsabili di vari attentati, viene accusato di costruire prove false. Un testimone che avvalora la tesi di Juliano cade misteriosamente nella tromba delle scale. Il 21 dicembre del ‘69 il sostituto procuratore Ugo Paolillo, che aveva manifestato l’intenzione di indagare anche a destra, viene sospeso dalle indagini su piazza Fontana e su Pinelli. I processi sulla bomba alla banca dell’Agricoltura vengono spostati da Milano a Roma, a Catanzaro: le acque si confondono, le pratiche rallentano.
Dopo l’odissea di più di dieci anni di processi, di accuse infamanti a lei e suo marito, il tribunale di Milano non accoglie la richiesta della vedova Pinelli di essere risarcita dal ministero degli Interni per la morte del marito e per le spese processuali. Licia Pinelli non ha dubbi: «Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo. Dopo la bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo per anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione pubblica ha cominciato a capire».
Quando il 17 maggio del ’72 il commissario Luigi Calabresi viene ucciso Licia Pinelli è distrutta: «Io mi sono sentita defraudata, io non volevo che morisse, volevo che il processo continuasse e
venisse a galla la verità, invece con quella morte il processo era finito ed era scontato che sarebbe finito così, e qualsiasi altra cosa sarebbe finita».
Di estremo interesse nell’intervista di Scaramucci la parte in cui si descrivono i rapporti tra Pino Pinelli e Luigi Calabresi prima di quel 12 dicembre del ‘69. Un rapporto di cordialità e forse di stima reciproca. Uno scambio di libri, tra l’anarchico e il poliziotto, di letture a loro care che volevano condividere. Licia Pinelli ricorda di come Pino descriveva il commissario Calabresi: una persona cordiale, intelligente.
Punti interrogativi che puntualmente ricompaiono dando la nozione dell’impotenza dei cittadini di allora di fronte ai disegni e alle macchinazioni tipiche di un periodo ancora oscuro, fra la sotterranea alleanza dell’informazione con la politica e con la giustizia e l’ombra dei servizi segreti per tenere la verità nascosta sotto una coltre di violenza.