Pil: la Cina sorpassa l’Italia

La Cina ha rifatto i calcoli del suo prodotto interno lordo del 2004 e comunica d’essere la sesta economia mondiale. La cosa ci riguarda da vicino, visto che fino a ieri al sesto posto c’era l’Italia. Ma la notizia vera è un’altra: lo scarto tra il pil cinese e quello di Francia (quinto) e di Gran Bretagna (quarto) è molto stretto e potrebbe essere colmato quest’anno. Realizzato anche questo sorpasso, solo Usa, Giappone e Germania avranno un pil più grande della Cina. L’economista Giacomo Vaciago, pur prevedendo che «tra 30-40 anni la Cina» batterà tutti, ipotizza che tra qualche giorno l’Italia potrebbe tornare al sesto posto: «La nostra economia è cresciuta più di quanto l’Istat è riuscito a registrare. Anche il nostro pil andrebbe rivisto al rialzo».

Per il momento occupiamoci del rialzo «tecnico» del pil cinese. Deriva da un «miglioramento dei sistemi di rilevazione e di calcolo», spiega Li Deshui, capo dell’Ufficio nazionale di statistica. Un «ritocco» consistente, +16,8%, ha portato il pil del 2004 a 1.971 miliardi di dollari. Il rialzo è imputabile quasi per intero al settore dei servizi e delle telecomunicazioni: la loro percentuale sul pil totale sale dal 31,9% al 40,6%. Scendono, invece, le quote dell’industria, dell’agricoltura e delle esportazioni. Il peso degli investimenti è più ridotto di quanto si pensava, mentre è più marcato quello dei consumi. In sostanza, la ricchezza dell’ex Celeste Impero non dipende completamente dall’industria manifatturiera. Ne esce un’economia «più sana, più sostenibile, più equilibrata», afferma Li, per una Cina che si autodefinisce «il più avanzato dei paesi in via di sviluppo». E che quest’anno incrementerà il prodotto interno lordo del solito 9%.

Il pil, però, va diviso per il numero degli abitanti che in Cina sono un miliardo e 300 milioni (malcontati, insinuano alcuni). Il pil pro capite dice che il temuto gigante prossimo a diventare la quarta potenza economica del mondo resta però un paese con un miliardo di (relativamente) poveri e 300 milioni di (relativamente) ricchi. Questo enorme squilibrio – tra metropoli e campagne, tra costa e interno – è la contraddizione più grande del «successo» cinese. Contraddizione interna che si riverbera all’esterno nei rapporti tra Pechino e i paesi sviluppati. Per questi ultimi, la minoranza di cinesi abbienti sono una massa enorme di potenziali consumatori di merci di lusso prodotte in Occidente. Più lo yuan si rivaluta sul dollaro, più ne compreranno. Ma se lo yuan si rivaluta troppo, ne risentirebbero le esportazioni cinesi. Di qui l’estrema prudenza di Pechino nel far oscillare verso l’alto la propria moneta.

Ieri Eurostat, l’ufficio statistico della Ue, ha segnalato un nuovo balzo delle esportazioni del made in China (servizi esclusi) nei venticinque paesi dell’Unione: +24% nei primi nove mesi del 2005, per un valore di 112 miliardi di euro. Nel 1999 la Cina era il quarto partner commerciale dell’Ue. A breve diventerà il primo, prevede Bruxelles, scalzando gli Usa che, da gennaio a settembre, hanno esportato verso l’Europa prodotti per 120 miliardi di euro, con un incremento solo dell’1%. Nello stesso periodo le esportazioni dai Venticinque verso la Cina hanno segnato un +4%, ma per un valore di soli 37 miliardi di euro. Per l’Europa, quindi, il saldo commerciale resta ampiamente negativo.

Scendendo dal generale al particolare, registrano un analogo squilibrio gli scambi agroalimentari tra Italia e Cina. Nei primi otto mesi dell’anno le nostre esportazioni sono aumentate del 23%, segnala Coldiretti. Ma quel che importiamo dalla Cina – pomodori concentrati, mele, legumi secchi – supera di 14 volte il valore di quel che esportiamo. Nei supermercati cinesi, lamenta Coldiretti, «i falsi sono arrivati prima dei nostri prodotti originali». E i falsari, questa volta, non sono i cinesi: olio extravergine «Romulo» fatto in Spagna, provolone proveniente dagli Usa, parmigiano australiano, «nonostante il nostro grana, dopo tante traversie, abbia avuto il via libera per entrare in Cina».

Il professor Vaciago consiglia di non scandalizzarsi troppo per le merci taroccate dei cinesi: «I falsi Gucci li facevamo anche noi, a Napoli». Invita, piuttosto, i paesi europei a non gareggiare tra loro per conquistare un pezzetto di mercato cinese. «Così facciamo un favore a Pechino che ci mangia uno dopo l’altro».