Piccolo è bello: la favola è finita

«Piccolo è bello», scriveva parecchi anni fa il Censis: oggi sicuramente gli uomini di De Rita saranno costretti a rivedere la loro opinione. La vitalità del piccolo, la capacità delle imprese di innovare, il momento d’oro della imprenditorialità disordinata capace di trascinare l’Italia è scomparsa: il piccolo è diventato una palla al piede dell’economia italiana.
Senza ovviamente fare una lode al gigantismo, alle concentrazioni, alle situazioni di quasi monopolio, quello che emerge dall’ultimo ricerca dell’Istat (come è possibile leggere nel pezzo di apertura) è una situazione imbarazzante per le prospettive industriali dell’Italia che, basta guardare le statistiche del commercio estero, seguita a perdere quote di mercato a causa della scarsa competitività. Il tutto per un problema di dimensioni. O se preferite, di nanismo del settore produttivo.
Un dato su tutti: le imprese attive nel settore dell’industria e dei servizi di mercato (è escluso il comparto dell’intermediazione finanziaria) sono 4,2 milioni, con una dimensione media di 3,8 addetti. Di queste imprese solo 3.199 (che corrisponde a meno dello 0,08% del totale) hanno più di 250 addetti: occupano il 27,7% dei lavoratori dipendenti e realizzano il 29,9% del valore aggiunto complessivo. Quello che evidenziano i dati Istat è che la struttura produttiva italiana (si fa per dire, visto che molte delle grandi imprese sono di proprietà estera) è una piramide con una base larghissima che non sale in progressione ma fa dei balzi di dimensione fino a un vertice molto ristretto.
Anche negli altri paesi industrializzati la struttura è piramidale, ma la figura geometrica è regolare. Ovviamente la base anche all’estero è composta da piccole imprese, ma la loro dimensione numerica è inferiore a quella italiana, mentre l’occupazione media è superiore. Non sempre la dimensione ridotta delle imprese è un fattore negativo: nell’era della Ict non servono più colossi industriali. Ma è sicuro che la piccola dimensione mal si concilia con la ricerca, l’innovazione, la capacità di competere e quindi la presenza sui mercati esteri. Di più: salvo eccezioni, le piccole imprese finiscono per sbattere il muso contro i giganti emergenti (la Cina su tutti) e cercano di impostare una politica aziendale (miope) di concorrenza con una rincorsa verso il basso del costo del lavoro e verso l’alto del prolungamento degli orari di lavoro, come dimostrano i dati Istat. Di più: la mancanza di innovazione ha portato l’industria a replicare se stessa, a non inserirsi nei settori ad alta tecnologia che sono gli unici che possono garantire domanda anche nelle fasi di stagnazione dell’economia mondiale. E la risposta del governo è stata fragile. Tagliare il cuneo è solo un palliativo che fa felici le imprese (utili più alti) ma non garantisce il futuro.