Madrid celebra Picasso a centoventicinque anni dalla nascita. Fa festa anche per i venticinque anni dal rientro in Spagna dell’opera sua più famosa: “Guernica”, autorizzato – su disposizione dello stesso autore – solo quando in Spagna furono ripristinate le più elementari libertà democratiche, vale a dire dopo la morte del fascista Franco.
Due ricorrenze significative, in occasione delle quali due musei madrileni, il Prado e il Reina Sofia, per la cura di Carmen Giménez e Francisco Calvo Serraler, sino al 3 settembre, presentano cento opere fondamentali del pittore di Malaga provenienti da tutto il mondo, alcune delle quali – come i “Tres Mùsicos”- mai esposte in Spagna.
Noi vorremmo cogliere il pretesto che questo evento storico ci offre, per provare a dire una o due cose che non siano del tutto banali su Picasso – impresa ardua – dopo che tutto è stato scritto sul pittore spagnolo. Per farlo vorremmo allontanare il fuoco dell’attenzione da lui almeno un poco, solo allo scopo di individuare quei pochissimi artisti (crediamo tre in tutto) che durante l’arco dei secoli hanno dimostrato che l’arte non è soltanto la “vulgata per immagini” della cultura dominante, non è soltanto l’espressione sovrastrutturale del gusto scelto ed espresso dalla classe dominante.
L’arte è una cosa più complessa ed è doppiamente necessario che un giornale comunista non se lo scordi. E’ più complessa perché la sua origine affonda le radici nel terreno umido e fecondo delle origini. Un tempo in cui ancora i conflitti di classe non esistevano, eppure veniva avvertita ugualmente (ci sarà stato un motivo…) l’esigenza di scrostare pareti e di sporcale con colori vegetali, realizzando magari magnifiche scene di caccia. E’ più complessa perché, pur senza dimenticare le influenze ideologiche esercitate sugli stili e ancora di più sui contenuti delle grandi narrazioni (i miti, le religioni ecc.) e, quindi, riconfermando l’uso necessario (non sufficiente) di una visione diacronica e storicistica, l’osservazione più umile e attenta non può non riconoscere che alcuni personaggi enormi ne hanno modificato radicalmente il corso.
Picasso è sicuramente fra questi, insieme a Caravaggio e, crediamo, a Duchamp. Mentre facciamo questi tre nomi enormi avvertiamo la necessità di precisare che qualsiasi “graduatoria” in arte non ha senso perché appare evidente che, in assoluto, nessuno inventa qualcosa a partire dal nulla. In questo senso alla storia dell’arte può essere opportunamente attribuito un andamento circolare, entro il quale il contributo di ciascuno è, almeno in parte, anticipato da qualcun altro e seguito e radicalizzato da altri ancora.
Una enorme cooperativa di artisti, trasversale e metastorica, ci piace immaginare, nella quale Masaccio anticipa l’Espressionismo tedesco e Paolo Uccello la Metafisica di De Chirico, Piero della Francesca istruisce il Tonalismo di Cavalli e di Morandi, e la pittura vascolare greca, nella sua variante geometrica, ispira Mondrian e Malevic.
Ma nonostante questa consapevolezza, non si può non vedere che tre artisti almeno hanno fatto di più. Non diciamo meglio. Diciamo di più. Nel senso più propriamente quantitativo. Hanno cioè aperto una discontinuità, un fosso fra loro e chi li aveva preceduti. Sono stati dei rivoluzionari implacabili. Insomma: dopo di loro nulla è stato più come prima. Non tenere conto di questo significa contentarsi di una visione sociologica e meccanicistica della storia dell’arte e questo, in fondo, non sarebbe piaciuto nemmeno a Marx.
Caravaggio, in splendido isolamento, scardinò una consuetudine consolidata da secoli di straordinaria sperimentazione, in Italia soprattutto e nei paesi fiamminghi. La consuetudine di occuparsi in pittura, con abilità e genio evidentemente diversi da caso a caso, della realtà così come “avrebbe dovuto essere” secondo la tradizione religiosa o mitologica. Caravaggio sostituì l’“essere” al “dover essere”. Cominciò a narrare la realtà “così com’è”, facendo del “luminismo” il docile strumento che inaugurava la pittura moderna.
Duchamp fu pittore abile (non della bravura pazzesca di Caravaggio e di Picasso). Ma non è passato alla storia per questo. Anzi ci è passato per il motivo opposto. La pittura, infatti, lui l’ha tolta di mezzo. Liquidata. Con il suo orinatoio capovolto ha inaugurato la “follia” contemporanea del ready-made. Una nuova stagione che radicalizza il punto di vista dell’artista, l’unico ad avere titolo. La realtà oggettiva non conta più. Conta l’idea. L’operazione. E allora anche trasportare un oggetto comune dal proprio ambiente in un museo può essere un capolavoro.
Picasso si situa in mezzo, fra questi due giganti di ardimento. Tira il collo alla pittura senza ammazzarla. La piega sul profilo della sua volontà prepotente. Niente più decorazione-rappresentazione-evocazione allora ma per un periodo eroico della storia dell’arte, quello che appartenne al Cubismo, solo esercizio di intelligenza pura e analitica, di scomposizione e di recupero della dimensione tempo. “Les demoiselles d’Avignon” del 1907 (qualche anno prima dell’orinatoio) fu il logo di questo processo che inaugurava una delle Avanguardie più radicali e antigraziose. Ma la fama non diede pace a Picasso che con la forza di un toro spinse la sua creazione oltre i limiti che lui stesso si era dato. Fu così che nacquero “Guernica” e mille altre invenzioni.
Si racconta che un giorno Modigliani regalasse a Picasso una delle sue tele migliori. Picasso sapeva chi era Modì e – c’è da ritenere – chi sarebbe diventato, ma era rimasto senza tele… Prese allora il dipinto del pittore livornese e ci dipinse sopra. Anche questo furore celebra oggi Madrid.