Pettinata con quell’onda alla Rita Hayworth

“Nonna Mao”, chi si ricorda ancora di lei, in quella Torino di Porta Pila, crocevia di forti e incerte esistenze e di solidarietà di classe, roccaforte antifascista, di coscienze formate nella lotta per la vita quotidiana?
Chi ricorda Cesarina Carletti, donna “piccola, minuta e con enormi occhialoni, che ha vissuto anni dietro il suo banco a Porta Palazzo?”
È così che la ricorda Adelaide Aglietta, allora segretaria nazionale del Partito radicale, sorteggiata come giurato al processo alle Brigate rosse nel marzo 1978.
Divisa, l’Adelaide, dice Leonardo Sciascia nella prefazione al “Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse”, tra la “disobbedienza civile” professata in quanto radicale e l’obbedienza alla dignità personale.
Cesarina Carletti, per alcuni Cesira, per tutti “nonna Mao”, fu arrestata nell’ambito di quell’inchiesta perchè trovata in possesso di volantini delle “brigate rosse”, nascosti sotto le cassette del suo banco di frutta, e perché avrebbe dato ospitalità, per qualche tempo, ad Alfredo Buonavita, esponente delle Br, in quella casa di Porta Palazzo dove Cesarina conduceva la sua esistenza fra il lavoro, i tanti gatti adottati e l’impegno politico: “…era sempre attenta a tutto ciò che si muove a sinistra, vivendolo, però… con lo spirito, la psicologia e le reazioni con le quali ha vissuto la Resistenza, la persecuzione e le torture in un campo di concentramento”. Solo così, sostiene Adelaide Aglietta, “solo a partire da questa sua esperienza, che non può non averla segnata indelebilmente per tutta la vita, su può arrivare a comprendere i suoi comportamenti”. Si, perché Cesarina, figlia di operai, con il papà anarchico ucciso di botte il 29 maggio del 1940 dai fascisti della casa Littoria, è sposata da soli sei mesi quando spediscono suo marito in Africa: “disperso – dice – e mai più visto”.
Cesarina, partigiana nelle Valli di Lanzo, ferita in combattimento contro fascisti e tedeschi a Mezzenile, il 10 dicembre 1943: “… siccome io avevo un odio terribile perché avevano ammazzato mio padre, ho fatto una sventagliata con il mitra e mi sono tirata su di scatto e… m’han colpita”.
Arrestata, portata nella tristemente famosa caserma di Via Asti a Torino, viene picchiata a sangue, perde quasi tutti i denti “e l’ai mai i sold da butemie”, racconta nelle testimonianze raccolte da Bianca Guidetti Serra e pubblicate nel 1977 per i tipi dell’Einaudi, col titolo molto significativo “Compagne”.
Non parla Cesarina, nonostante le torture e nel giugno del ’44 viene deportata a Ravensbruck, e qui Anna Cherchi, di Torino, classe 1924, con un percorso molto simile alle tante Cesarine, la ricorda:
“Avevamo una compagna, Carletti Cesarina, detta Nonna Mao, che aveva due valigie grosse, piene zeppe. I tedeschi avevano detto alla sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo ed effettivamente era una zona fredda, perché il mese di luglio, quando alle sette del mattino si andava all’appello, si batteva i denti, un po’ per la paura ma anche per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia. Allora lungo questo percorso lei chiede ai due tedeschi che l’aiutassero a portare le valigie. Figuriamoci! Loro sapevano cosa c’era in quelle villette e non lo facevano neanche per loro. Allora lei si è arrabbiata e dice se non mi aiutate io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, ci si è seduta sopra e noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi, perché andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci. Lei, nient’affatto! Sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco. Quello che diceva per noi era tabù, non capivamo, ma appena finito, la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei gliel’ha detto. Allora le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, e a un certo punto vediamo una carabiniera in divisa, con la bustina in mano e il frustino nell’altra, entra tutta marzialmente e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata con quell’onda alla Rita Hayworth. Non si è sbagliata, è andata, l’ha presa e l’ha tirata fuori, lei quelle che non ha voluto gliele ha ricambiate, poi l’hanno portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva i zigomi grossi, era una bella donna però con quella testa pelata! Ed io ho avuto, non so perchè mi è venuto, gliel’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre, lei si chiamava Cesarina, ma noi la chiamavamo Cesi per fare in fretta, le ho detto: Cesi, sembri il Duce. Non gliel’avessi mai detto”.
A Ravensbruck, dice Cesarina, “l’an fame due punture pen-a rivà e mestruasiun pi nen vistne (Mi hanno fatto due punture appena arrivata e mestruazioni non ne ho più viste)”.
Dopo la Liberazione Cesi fa la segretaria al “Gramsci”. Nel ’48, dopo l’attentato a Togliatti sta tre giorni e tre notti col mitra, vestita da partigiana, ad aspettare il famoso campanello. “Il terzo giorno – dice – il capo ha perdonato, non si fa più nulla”. Entra poi in rotta di collisione con i dirigenti del partito che la considerano un’estremista, nel ’52 viene arrestata per i Rosenberg e assolta in istruttoria. Incontra il Partito Comunista d’Italia marxista-leninista, conosce i ragazzi di Lotta Continua e di Potere Operaio e con loro va a fare le manifestazioni, come quella di Corso Traiano: “…qui finalmente è arrivata la rivoluzione, perché una cosa come Corso Traiano… io non la vedrò mai più, una cosa così bella, mai più…”, ricorda.
Fino al ’68, ammette, “avevo i paraocchi, come li mettono quelli del Partito comunista; finalmente si sono un po’ logorati i cinghietti, i paraocchi si sono aperti e ho potuto guardare di qua e di là”.
Questa era nonna Mao, l’ho conosciuta nel ’74 a Porta Pila e lì tutti la trattavano con rispetto e solidarietà. Anche chi non conosceva la sua storia aveva per Cesarina un certo riguardo. Era sempre pronta ad aiutare chiunque e mostrava con fierezza una catenina al collo alla quale aveva appeso una bellissima falce e martello d’oro, un regalo importantissimo per lei, che aveva ricevuto da un compagno speciale che le era molto affezionato.
A nessuno sarebbe venuto in mente, nella Torino di allora, e in quel particolare angolo di mondo, di fare uno sgarbo a nonna Mao, ma Torino, negli ultimi anni di vita di Cesarina, cambiò radicalmente e anche Porta Palazzo non fu più la stessa. Solo lei non cambiò mai.
Gli scipparono la catenina a “nonna Mao”, e l’episodio non ebbe tanto risalto, se non tra i pochi che la frequentavano. Fu il segno che la fine degli anni Ottanta si portava via con “nonna Mao, anche un pezzo della storia di Torino e della nostra storia.
Ciao, Cesarina, io continuo a ricordare.