La corsa dei prezzi del petrolio sembra inarrestabile e, quel che è
peggio,
non sembra esservi modo di porvi rimedio. Ogni giorno un nuovo massimo.
Nella mattinata di ieri il greggio Brent, su cui viene prezzata la più
parte
dei greggi medio-orientali, ha raggiunto i 39,7 dollari al barile:
livello
nominale mai raggiunto dai giorni della Prima Guerra del Golfo nel
settembre
1990. In termini reali, il valore di allora si avvicinerebbe ai 55
dollari.
Dall’inizio del 2004 l’aumento è stato di circa 10 dollari al barile:
più
32%. Le autorità monetarie, dall’US Federal Reserve alla BCE, sono
sempre
più allarmate sugli effetti che ne possono derivare sui consumi, sugli
investimenti, sull’inflazione. L’illusione che il petrolio contasse
ormai
poco nell’età della new economy è rapidamente svanita.
Si osserva, così, che le quattro fasi recessive osservate negli ultimi
tre
decenni sono state sempre precedute da forti rialzi dei prezzi del
petrolio,
mentre il boom degli anni Novanta è stato accompagnato e favorito da
loro
bassi livelli. Per la prima volta, Alan Greenspan ha avanzato il timore
che
la crisi abbia carattere strutturale: non riducibile al solo petrolio
(perché tutti i mercati energetici ne sono interessati) e non
risolvibile in
breve tempo.
Ha ragione. Due sono le cause di fondo che sospingono verso l’alto i
prezzi.
Una economica l’altra politica, tra loro strettamente intrecciate.
Quella economica è data dalla rigidità del sistema petrolifero e più in
generale dell’intero sistema energetico. L’aumento della domanda si
scontra
con un tasso di utilizzo della capacità produttiva vicino ai suoi
massimi.
L’intera filiera petrolifera – dall’estrazione di greggio, al trasporto,
alla raffinazione – è ormai sfruttata al massimo delle potenzialità.
Non vi
sono consistenti margini addizionali in grado di fronteggiare
interruzioni
di forniture che possano derivare dalle turbolenze politiche che
attraversano Iraq, Venezuela, Nigeria, Arabia Saudita.
Non è la politica che va piegando l’economia, ma sono le rigidità
strutturali di questa che consentono alle vicende politiche di
dispiegarsi
in tutta la loro portata. Se, ad esempio, non si riuscirà a riparare in
tempi rapidi l’oleodotto irakeno che è stato danneggiato giorni fa (con
conseguente riduzione di 1/3 delle esportazioni irakene) la situazione
non
potrebbe che aggravarsi ulteriormente.
In questa situazione, i meccanismi del mercato – che tutti invocano in
tempi
normali salvo lamentarsene in tempi burrascosi – fanno la loro parte.
Posizioni speculative detenute dagli ‘hedge funds’ americani stanno
giocando
al rialzo dei prezzi, secondo la Merril Lynch per 6-7 dollari al barile,
così come vi gioca la ritrosia di molti raffinatori ad acquistare oggi
petrolio nel timore che domani i prezzi possano scendere. Rallentando
gli
acquisti non si ricostituiscono, però, le scorte, oggi a livelli
insoddisfacenti, acuendo la vulnerabilità del sistema.
Correggere questi comportamenti – in un mercato dove i prezzi sono
fissati
quotidianamente dal libero gioco della domanda e dell’offerta di una
gran
moltitudine di soggetti – è quasi impossibile, né si intravedono gli
strumenti con cui farlo. Quel che serve al mercato è stabilità. Solo in
un
simile contesto, le imprese possono programmare investimenti,
ricostituire
margini di sicurezza operativa, eliminare quelle strozzature che oggi
rendono il sistema petrolifero e l’economia mondiale vulnerabile alle
vicende petrolifere. Prendersela con l’Opec, come fanno molti politici,
è
privo di senso e furbesco. Privo di senso: perché l’Opec sta pompando
quasi
al massimo delle sue capacità estrattive con 2,5 milioni di barili in
più
del “tetto” produttivo che si era dato dal primo di aprile.
Furbesco: perché è un maldestro tentativo di attribuire ad altri proprie
responsabilità.
* Clò è l’ex ministro dell’industria del governo Dini ed esperto di
“economia
politica del petrolio”