Petrolio e alleanze, il safari della Cina

A Maputo, tra gli edifici rosa e verdi che fronteggiano l’oceano, retaggio architettonico della colonizzazione portoghese, spicca la sede del nuovo Ministero degli esteri. Un palazzo enorme, sormontato da un surreale tetto a pagoda che ricorda a imperitura memoria il generoso donatore dei fondi necessari a edificarlo. In Sierra Leone, a Freetown, negli hotel di più recente costruzione bagni, ascensori e quant’altro sono indicati anche con ideogrammi cinesi. Nella capitale della Sierra Leone si potrebbe imprimere il marchio «made in China» anche sul nuovo parlamento, il nuovo quartier generale dell’esercito, i nuovi edifici governativi. In Africa oggi, in ogni cantiere che costruisce edifici, strade, ferrovie, centrali elettriche, in ogni giacimento che perfora ed estrae, in ogni raffineria di greggio, la probabilità di imbattersi in cinesi è quasi una certezza. L’interscambio commerciale complessivo fra Cina e il continente è quadruplicato negli ultimi cinque anni arrivando a quasi 40 miliardi di dollari con un leggero surplus degli africani. Nello stesso periodo il tasso di crescita dell’Africa sub sahariana è quasi raddoppiato, dal 3 al 5,8% l’anno. Il migliore dal 1974, e grazie anche al commercio con la Cina, dicono gli economisti.
Pechino ha proclamato il 2006 «l’anno dell’Africa», e lo sta celebrando alla grande. E’ ancora in corso la visita nel continente del premier Wen Jiabao che da sabato scorso salta da uno all’altro dei sette stati previsti dal suo tour, firmando contratti e sottoscrivendo impegni. Partito dall’Egitto è andato in Ghana quindi in Congo e dopo in Angola, giovedì ha lasciato il Sudafrica per dirigersi verso la Tanzania e infine l’Uganda. Prima di lui, in tempi ravvicinati, era stata la volta del presidente presidente Hu Jintao, che alla fine di aprile aveva visitato Marocco, Kenya e Nigeria. Un viaggio che lo aveva ampiamente ripagato delle umiliazioni subite poco prima negli Stati uniti, i quali non avevano neppure voluto riconoscergli gli onori di una «visita di stato». Una doppietta di tour africani eccezionale, preparata all’inizio dell’anno dal ministro degli esteri Li Zhaoxing. In soli sei mesi, 15 nazioni africane hanno avuto l’attenzione dei vertici cinesi. Non bastasse, mentre il premier cinese gira l’Africa, una delegazione di alti quadri diplomatici provenienti da 25 paesi africani è in questi giorni in Cina per preparare il Forum Cina-Africa che a novembre riunirà i rappresentanti di 44 stati africani a Pechino, città prescelta per ospitare anche il vertice annuale dell’African Development Bank.
Un’apoteosi, accuratamente coltivata dalla Cina nell’ultimo decennio, che ha colto il mondo di sorpresa per la sua ampiezza e per i principi che la ispirano, diventati oggetto di dibattito e astiose polemiche, ma anche di riflessione sulla politica di (fallimentari) relazioni con l’Africa dell’Occidente. Non è arduo capire i motivi dell’offensiva diplomatica e commerciale della Cina che ha anche sancito i principi ispiratori della sua politica in un libro bianco dedicato all’Africa e diffuso a gennaio di quest’anno nel quale, evento raro nella sua storia diplomatica, spiega il «nuovo modello di partnership strategica».
I motivi del rinnovato interesse sono chiari. La crescita economica a rotta di collo chiede quantità crescenti di energia e materie prime di cui l’Africa è straricca e talvolta unica depositaria. Le industrie di esportazione vogliono mercati di sbocco per le loro merci, e l’Africa non produce granché. La diplomazia in questi tempi duri richiede alleati che sostengano la politica e gli interessi cinesi negli organismi internazionali per contrastare, quando necessario, gli Usa, sempre di più il primo antagonista di Pechino.
L’Africa riempie con la Cina i vuoti lasciati da potenze ex coloniali o neo imperialiste che, pur volendo le sue ricchezze, rifiutano i suoi problemi o scelgono scorciatoie belliche, dispensando carità o imbracciando peacekeeping. Così dedicano una lagnosa e inconcludente attenzione al suo debito, laddove la Cina ha fatto passi concreti per cancellare quello di 33 paesi africani. Nel 2000 ha cassato 1,2 miliardi di dollari e nel 2003 altri 750 milioni. Inoltre, la fame cinese di materie prime ha fatto aumentare i prezzi: dal 2001 il valore del rame è aumentato di sei volte e quello del platino è triplicato. Per non parlare del petrolio. Laddove Fondo monetario e Banca mondiale si ritraggono o impongono condizioni, economiche e politiche, da usurai e da sepolcri imbiancati, la Cina largheggia in prestiti a tassi ridotti e aiuti (per progetti che impegneranno compagnie e lavoratori, anche detenuti, cinesi) e dichiara di non volersi intromettere negli affari interni altrui (unica condizione, il ripudio di Taiwan). E se gli occidentali fanno catenaccio intorno ai propri mercati, nel 2005 la Cina ha eliminato dazi su 190 merci provenienti da 25 paesi africani. In situazioni che fanno arretrare imprenditori occidentali che tengono al profitto, le imprese statali cinesi non badano ai bilanci.
Certo non fa piacere che un personaggio come Robert Mugabe, che mantiene lo Zimbabwe in condizioni inaccettabili, proclami la Cina «il mio amico numero uno» ma, dicono gli stessi africani nei forum aperti sul web, è preferibile il pragmatismo cinico degli affari all’ipocrisia di chi seleziona tiranni in base alle proprie convenienze del momento e volge gli occhi altrove quando non vuol vedere. Assai sgradevole che un governo sanguinario come quello sudanese scampi alle sanzioni Onu sul Darfur per la minaccia di veto cinese, ma ci si chieda quanti veti sono stati posti in situazioni altrettanto ingiuste. La Cina vende armi, tante, ai paesi africani coinvolti in conflitti che si abbattono su popolazioni stremate. Ma un’occhiata alle vendite globali di armamenti non vedrà la Cina al primo posto.
Mugabe ha ragione quando, sollevato, afferma che la Cina sta diventando «un punto alternativo di potere globale». Ma è sempre più chiaro che per fronteggiare questo potere le potenze globali dovranno diventare finalmente oneste con l’Africa e praticare gli alti principi che enunciano.