Petrolio caro, per Eni è ok

Poteva essere l’occasione per fare un po’ di chiarezza sullo stato reale del mercato dei prodotti energetici, percorso da oltre due anni da un aumento dei prezzi che appare inarrestabile. E invece la presentazione della World Oil & Gas Review curata dall’Eni si è limitata a garantire che tutto va nel migliore dei modi e le cose presto andranno ancora meglio. Sarà stato forse per la presenza dell’economista neocon Daniel Yergin, ma l’impressione che la speranza abbia sostituito le certezze è rimasta abbastanza forte.
Stando ai dati presentati, le riserve accertate di petrolio sarebbero cresciute nel 2005 dell’1,2%, mentre quelle di gas del 2,1. Tra le notizie meno buone c’è quella di un maggior sbilanciamento tra le migliori qualità di greggio e le peggiori (heavy, piene di zolfo e più difficili da raffinare), a favore di queste ultime. Sul piano della domanda, l’anno scorso si è registrata una riduzione dei consumi di greggio nei paesi più sviluppati, compresi gli Stati uniti, mentre è andata crescendo la domanda di gas, che ormai da dieci anni viaggia a un ritmo doppio rispetto a quella del petrolio.
Piccoli inconvenienti, tutto sommato, con una diversificazione delle fonti addirittura incoraggiante (il gas inquina meno). Ma allora, perché il prezzo è salito così tanto?
La risposta di Yergin, ma anche dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, chiama in causa i consumi crescenti di paesi emerenti come la Cina (ormai il secondo paese sul piano dei consumi) e l’India. I quali, dal 2004, hanno provocato un shock da domanda sul mercato globale. Cui poi si è aggiunto uno shock da forniture, provocato da tensioni politiche interne (in Nigeria e Venezuela, per esempio) o internazionali (iraq, Iran). Ciò nonostante, entrambi prevedono prezzi in discesa già dal prossimo anno. Su quali basi?
Beh, qui la risposta è stata decisamente meno precisa. Yergin l’ha messa sul piano storico, ricordando che ad ogni crisi si è pensato che i prezzi, una volta saliti, sarebbero rimasti a quel livello; poi è intervenuta la dinamica di ciclo, riportando i mercati alle fisiologiche salite e discese. Anzi, il fatto che oggi i prezzi siano così alti sarebbe quasi un bene, perché in tal modo sono ripresi gli investimenti; sia per la ricerca di nuovi giacimenti, sia per trovare tecnologie di raffinazione più efficaci con le qualità peggiori di greggio. Il lungo periodo di prezzi bassi, in effetti, aveva scoraggiato la ricerca.
Per questa ragione Scaroni e Yergin trovano «ragionevole» attendersi che l’aumento degli investimenti in atto si traduca presto in una crescita della capacità estrattiva e di raffinazione tale da far corrispondere più facilmente domanda e offerta. Un primo problema lo si incontra quando si quantificano gli investimenti necessari nei prossimi 15 anni: tra gli 8 e i 12 trilioni di dollari. E dire che i target di prezzo per decidere di investire si vanno decisamente alzando. L’anno scorso, ha detto Scaroni, il costo marginale di produzione del barile di greggio pià caro tenuto in considerazione (quello delle oil sands canadesi) era di 30-32 dollari. «Ma ora questo prezzo salirà un po’». Se ne può concludere che per mantenere stabile il margine di profitto delle compagnie il prezzo finale del barile dovrà essere più alto di oggi, non più basso.
Il tutto, naturalmente, senza voler tener conto di quei geofisici – ormai un numero consistente – che dopo aver lavorato per decenni agli ordini delle compagnie sono oggi arrivati a vedere in azione lo spettro del peak oil. Ovvero: che il prezzo stia esplodendo perché l’estrazione di greggio è già arrivata (o sta per toccare) al suo limite fisico. L’ultimo scienziato a «saltare il fosso» è Jeremy Leggett, con un libro dal titolo davvero inequivocabile: Fine corsa.
Ma non parlatene a Daniel Yergin. Lui sta ancora chiedendosi come abbia fatto Mattyhew Simmons, ex consigliere per l’anergia della Casa Bianca, ad approdare a questa stessa sponda «catastrofista». Che abbia avuto accesso a qualche dato un po’ più realistico?