Sono le sedici e trenta, il pm Casson spegne il computerino collegato al maxischermo sul quale ha proiettato per giorni documenti, tabelle, gli elenchi dei 157 operai morti del Petrolchimico, si lascia scivolare dalle spalle la toga, allarga il collo della camicia, e con voce volutamente piatta tira la prima conclusione di quattro giorni di requisitoria.
«Chi ha perso furono i singoli lavoratori, prima tenuti all’oscuro di tutto, poi ingannati, presi per i fondelli, svillaneggiati, sfruttati, ricattati e, peggio ancora, fatti morire o ammalare, mentre un direttore di stabilimento, oggi imputato, li accusava sul giornale di essere degli scansafatiche e dei vagabondi, mandava la visita medica fiscale a uno di loro deceduto pochi mesi dopo per due patologie tumorali, ed altri direttori dal 1973 al 1996 lanciavano accuse di sabotaggio e denunce degli operai , per sviare l’attenzione della gente e degli inquirenti. Per questi operai, a tutela della loro integrità e della loro dignità, per questi uomini lasciati a un certo punto soli, in fabbrica per portare a casa un tozzo di pane, chiedo che il Tribunale voglia emettere una sentenza di condanna nei confronti degli imputati».
Fine di quella che Casson ha chiamato all’inizio, due settimane fa, «una lezione di criminologia industriale». Dei 28 accusati di strage, da Eugenio Cefis in giù lungo le scale gerarchiche di Eni e Montedison, non c’è nessuno. Né verranno oggi, quando il pm quantificherà le pene richieste, e si prevede la debita durezza. Centocinquantasette morti, centotre ammalati. E danni all’ambiente attorno a Porto Marghera che l’avvocato dello stato Giampaolo Schiesaro ha già quantificato in ottantamila miliardi.
Il quadro che ha dipinto Casson in questi giorni è impressionante. Nel polo chimico veneziano si fa plastica. Si usano il cloruro di vinile monomero ed il polivinile di cloruro. Il Cvm è cancerogeno, e lo accertano proprio le industrie chimiche italiane e la stessa Montedison con lavori epidemiologici interni, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta. Ma perché farlo sapere in giro? Perché spendere per ammodernare gli impianti, filtrare l’aria, dare mascherine e tute agli operai? Montedison, Solvay ed altri informano solo il resto dei colossi chimici europei, stringendo con loro un patto di riservatezza. E per anni cala quello che Casson definisce «un assordante silenzio» sulla sostanza cancerogena. Al Petrolchimico si continua a maneggiare e respirare il Cvm senza precauzioni. Quando lo scandalo in qualche modo esplode dagli Usa, nel 1974, e non si può più fingere, il gruppo chimico adotta la tecnica del temporeggiare.
Il 1975 e quelli immediatamente seguenti sono anni cruciali ed emblematici. Casson li prende di petto. Nel 1975 la Fulc vara una piattaforma radicale, che chiede la chiusura degli impianti obsoleti ed il risanamento degli altri. Nel 1975 oltre 250 lavoratori del Petrolchimico chiedono notizie sulla pericolosità del Cvm, un’assemblea con un epidemiologo, l’allontanamento dai reparti a rischio di chi vi lavora da più di 15 anni; molti di quei 250, oggi, sono morti di cancro. Nel 1975 l’azienda risponde: certo, faremo, vedremo, risaneremo.
«Tutti impegni senza esito», sottolinea l’accusa, «un imbroglio colossale. L’azienda dice di aver investito molto? È sicuro e provato che lo abbia fatto in fondi neri, tangenti e pubblicità, così come è sicuro che ricevesse ingenti finanziamenti dallo Stato. Ma per la sicurezza.». Nel 1975 Montedison programma interventi di risanamento, a valore attuale, per 195 miliardi; il grosso viene subito fermato con lettere riservate interne, alla fine se ne realizzano per 80 miliardi. Nel 1975 Montedison introduce al Petrolchimico il gascromatografo, uno strumento che dovrebbe garantire il controllo dei livelli di Cvm nell’aria. Dice Casson: «È una gigantesca presa in giro». Intanto perché lo strumento arriva a misurare solo fino ad 1 ppm (una parte per milion e) della sostanza, mentre altra tecnologia in possesso del gruppo – gli spettrometri – è mille volte più sensibile. Poi perché i rilevamenti, nel giro di tre mesi, fanno credere che l’aria si sia improvvisamente ripulita.
Un miracolo? Sarcasmo del pm: «Deve essere intervenuto un deus ex machina. Meglio, una macchina che è diventata deus: il gascromatografo». E così: ciao investimenti e lunga vita ai reparti più vecchi destinati alla chiusura. Pressing sui legislatori italiani ed europei, riuscendo ad imporre limiti di emissione molto larghi. Sindacalisti, pian piano, tranquillizzati: «Sono dei creduloni, questi sindacalisti, inconsapevoli – e qui ci metto un punto interrogativo – dei trucchi aziendali per addomesticare i dati», scandisce Casson.
Poco dopo arrivano la grande crisi della chimica, il timore per l’occupazione, il terrorismo delle Br. Paure sovrastanti le altre. «E in questa situazione di scontro e di confusione chi ha perso furono i singoli lavoratori». Che magari non lavoravano solo per un pauperistico tozzo di pane, ma anche per la dignità, la democrazia, la solidarietà, parole sempre calorose al Petrolchimico.