Il primo novembre del 2000 l’americana Radio Free Europe trasmetteva la seguente notizia: «L’Iraq intende proseguire nei suoi piani volti ad abolire l’uso del dollaro negli affari concernenti il petrolio… Questa settimana Baghdad ha insistito presso l’Onu, ottenendone il permesso, di vendere petrolio in euro, dopo il 6 novembre, attraverso il programma oil for food: L’Iraq ha minacciato la sospensione totale delle sue esportazioni di petrolio nel caso l’organismo internazionale avesse respinto la richiesta». La nota della radio della propaganda ufficiale di Washington continua citando lungamente un «esperto» del medioriente pescato dall’agenzia «Arab Press Service», secondo cui «l’Iraq sta rispolverando la strategia che un altro paese colpito da sanzioni Usa – l’Iran – ha discusso sia di recente, sia l’anno scorso». Sempre secondo l’esperto, cui l’emittente ufficiale Usa dava massima credibilità, «spostarsi verso l’euro attrae l’Iraq e l’Iran, dato che questi paesi credono che se l’atto venisse seguito da un numero di grandi produttori di petrolio, si potrebbe creare una fuga dal dollaro, indebolendo Washington… Un altro possibile candidato per lo spostamento verso l’euro, se questa moneta fosse più forte, potrebbe essere il Venezuela le cui relazioni con Washington si sono inasprite…» (Charles Recknagel, «Iraq: Baghdad Moves to Euro», Radio Free Europe , 1° novembre 2000, ottenibile presso: http://www.rferl.org/nca/features/2000/11/01112000160846.asp). Il lungo dispaccio della stazione radio Usa spiega praticamente tutta la dinamica della guerra contro l’Iraq. La democrazia e la libertà – che non verranno per nulla instaurate, perché non possono essere introdotte artificialmente; né l’uccisione in massa di civili e la distruzione di ospedali e mercati possono fungerne da levatrici – c’entrano solo come cortina fumogena di disinformazione. La guerra all’Iraq è stata e continuerà ad essere una guerra macroeconomica contro l’Europa ed in prospettiva contro la Cina. A ricavarci dei profitti saranno le multinazionali del petrolio Usa. Non mi inoltrerò in spiegazioni teoriche, preferendo rimanere invece legato alla documentazione giornalistica, in questo caso molto più importante di mie eventuali elucubrazioni. Sul londinese Observer del 23 febbraio, a tre settimane dall’inizio dell’aggressione Usa, Faisal Islam osservava: «A tutti gli effetti, i normali criteri economici non si applicano agli Usa per via del ruolo internazionale del dollaro. Circa tremila miliardi di dollari sono in circolazione nel mondo permettendo così agli Usa di sostenere un deficit nei conti con l’estero virtualmente in forma permanente. Due terzi del commercio mondiale è denominato in dollari. Due terzi delle riserve estere ufficiali delle banche centrali sono a loro volta denominati in dollari» («When will we buy oil in Euros?», vedi: http://www.observer.co.uk/Print/0,3858,4611300,00.html). Arriviamo ora al punto centrale dell’articolo dell’Observer, da leggere molto attentamente: «La dollarizzazione del mercato del petrolio è uno degli elementi chiave…. la maggioranza dei paesi costretti a importare petrolio hanno bisogno di dollari per pagare il carburante. Analogamente, gli esportatori di petrolio detengono come riserve miliardi nella moneta in cui sono pagati». In questo modo gli Stati uniti riescono a finanziare non solo il deficit estero, ma anche gli iniqui sgravi fiscali interni, pagando i conti esteri con dei pezzi di carta. Se questo surrealistico circuito venisse a cessare l’egemonia finanziaria Usa verrebbe seriamente colpita e gli Usa non potrebbero più essere la minoranza che consuma la maggioranza delle risorse energetiche del pianeta. Inoltre se venisse meno la capacità di far quadrare i conti senza pagare, le società petrolifere Usa sarebbero molto più esposte alla concorrenza delle europee. Il legame dollaro-petrolio unifica gli interessi specifici delle multinazionali americane del petrolio con le esigenze di macroeconomica finanziaria di Washington. E’ da notare che il peso mondiale delle società finanziarie Usa dipende proprio dalla capacità del governo di chiudere il circuito. Ne consegue che pagare con dei pezzi di carta scoperti è condizione necessaria per mantenere in piedi non solo gli interessi petroliferi ma per sorreggere l’intera architettura finanziaria americana, compreso il Fondo monetario e la Banca mondiale. Poco dopo la decisione di Baghdad di accettare solo pagamenti in euro, l’Iraq e la Giordania firmarono un accordo di scambi bilaterali denominato interamente in euro. E non è stato soltanto l’Iran a soppesare la possibilità di spostarsi vero la moneta europea, ma anche l’Arabia Saudita, il cui ambasciatore a Washington si è apertamente espresso in tal senso in una deposizione ad un comitato del Congresso. Una piccola, possibile, frana che ora viene fermata dalla guerra (il greggio iracheno tornerà ovviamente a essere pagato in dollari). L’impellente, e ormai permanente, esigenza di chiudere artificialmente il buco estero dà assolutamente ragione a James Woolsey, l’ex direttore della Cia che preconizza «la quarta guerra mondiale». Ma queste sono le loro ragioni, non le nostre e nemmeno quelle della massa dei salariati americani, i cui livelli di vita sono andati calando proprio a partire dalla abbandono dell’industria nazionale e della conseguente esplosione del deficit estero. Resta da spiegare perché gli europei non vogliano vedere «attraverso» l’America, emancipandosene.