Perché la protesta è giusta

Si tiene oggi a Roma una grande manifestazione dei taxisti contro il decreto del governo. Decreto che ha suscitato una grande eco fra i cittadini, le categorie interessate, i partiti. Su tutti aleggia la grande nube (tossica o salvifica) della liberalizzazione. I taxisti, fra tutti, sembrano quelli più focosamente e platealmente contrari. Certo, parlare dei taxisti non è facile come per tutte le categorie che per vari motivi si portano dietro la maledizione d’essere “corporativi”. Ognuno ha fatto l’esperienza di aspettare a lungo in fila un mezzo, per poi pagare un costo ritenuto elevato. I taxisti, poi, in maggioranza votano a destra. » necessario, tuttavia, conoscere la situazione reale e l’impatto del decreto per poter giudicare la bontà o meno del provvedimento. In primo luogo va detto che non si può mettere questa categoria sullo stesso piano delle banche, delle assicurazioni, dei notai. Questa è una categoria di lavoratori autonomi che sta ore ed ore sulle auto in mezzo ad un traffico infernale. Un traffico contro cui nessun governo si è scagliato con la veemenza di questi giorni e che pure è uno dei motivi della bassa velocità commerciale, quindi dell’alto costo delle corse e della relativa scarsità dei mezzi. Anche per questo il costo è alto; le tariffe, infatti, sono ferme al 2001. Una categoria dalle licenze dai costi elevatissimi, che per renderle remunerative guida 8/10 ore al giorno nelle città che conosciamo, non ha tredicesima, non ha ferie pagate, ed alla fine percepirà una pensione molto bassa. L’aumento arbitrario delle licenze colpisce assai negativamente questa situazione.
Il decreto non liberalizza le licenze, semplicemente ne aumenta il numero senza criteri e, peggio ancora, cancella la norma “una testa, una licenza” per introdurvi l’impresa con tanto di padroni e dipendenti. Tutto questo dovrebbe aumentare l’offerta e abbassare le tariffe. In realtà le tariffe sono amministrate e non dipendono dal mercato. L’unico effetto è quello di vedere abbassare le entrate dei taxista attuali o, più probabilmente, di veder aumentare ancora di più le ore di lavoro. L’introduzione dell’impresa, per altro verso, porterebbe realisticamente in poco tempo ad oligopoli che, come sappiamo, fanno cartello e gestiscono il mercato con ben altro potere corporativo rispetto alla situazione attuale. La qualità del lavoro diminuirebbe poiché le imprese utilizzerebbero lavoro precario. Situazione che già accade nel servizio noleggio dove sembra che gran parte del salario sia in nero e dove l’orario raggiunge le 14 ore giornaliere e il chilometraggio quadruplica. Queste brevi considerazioni dimostrano che il settore non avrebbe dovuto essere trattato per decreto ma con un confronto, anche duro, con la categoria. Categoria che non è tutta insensibile ad un miglioramento qualitativo e quantitativo del servizio. L’aumento dell’offerta può avvenire tramite bando e non con l’asta. Già città come Roma hanno un aumento concordato delle licenze di 450 unità, ma in un anno ne sono state assegnate solo otto! Questo aumento dovrebbe essere conteggiato attraverso criteri “oggettivi”: popolazione, grado d’attività economiche e turistiche ecc ecc. Il decreto, al contrario, togliendo qualsiasi oggettività al numero dei taxi ributta tutto in politica: Milano non aumenta, altri sì. » una devolution che abbiamo già battuto nel referendum. Si può anche aumentare l’utilizzo delle attuali macchine attraverso collaboratori o coadiuvanti (non oltre i part-time, per evitare di nuovo la trasformazione in impresa). Ciò comporterebbe subito un aumento del 30% dell’offerta. Il decreto, quindi, si può e si deve modificare per motivi di metodo e di merito. Un’ultima annotazione. Questo grande boom della parola ed ideologia delle liberalizzazioni, che oggi giustamente riguarda alcuni poteri e categorie forti, qualche altra no, ci riporta al pensiero unico e si rivolgerà con più forza e veemenza in altra direzione. Colpirà i servizi sociali e, quindi, i lavoratori e utenti.