Perché la Nato non può aggiustare il tiro

Un portavoce militare ha ammesso che nell’Helmand è in corso un’operazione contro i talebani ma ha sostenuto di non avere contezza di vittime civili: «Non abbiamo notizie del genere», ha detto il tenente colonnello Charlie Mayo, dell’esercito di Sua Maestà britannica, che però ha aggiunto qualcosa di più. Si è sentito in dovere di spiegare che «siccome i talebani non indossano uniformi, quando rimangono uccisi figurano sempre come civili».
Il soldato Mayo ha in effetti spiegato perché la Nato non può «aggiustare la mira», la linea di difesa che seduce l’Alleanza atlantica dopo le stragi più recenti e grossolane che hanno coinvolto bombardieri non già della coalizione di volenterosi a guida americana (ciò che resta di Enduring freedom) ma in forza all’Isaf, la forza di stabilizzazione che, sotto un vago mandato delle Nazioni Unite, dovrebbe occuparsi della «stabilizzazione» della pace in questo paese in guerra. «O impariamo a prendere la mira o è meglio che ci asteniamo dallo sparare» è stata la locuzione utilizzata dal ministro Parisi agli inizi di luglio. A suo dire il messaggio è stato consegnato al segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer dopo le rimostranze italiane espresse in più occasioni dal ministro degli esteri D’Alema (e ribadite nella sua recente relazione al parlamento italiano).
Il problema è che, come ha spiegato senza perifrasi il colonnello Mayo, aggiustare il tiro non si può. Per tre motivi. Il primo è un vecchio refrain: la guerriglia si mischia alla popolazione civile e la utilizza come scudo umano, come si fa a riconoscerla visto che non ha una divisa? E come si fa a protestare la morte di un civile visto che nemmeno quello ne porta una? Alcuni mesi fa, alcuni coraggiosi reportage riferirono addirittura di voci secondo le quali dopo i bombardamenti venivano messi accanto ai cadaveri senza divisa fucili e munizioni. Ecco dimostrata l’uccisione dei talebani. Ma di questo efferato imbroglio non ci sono prove. Soltanto boatos che restano da dimostrare, per cui bisogna accontentarsi di quanto dice il soldato Mayo.
L’altro punto dolente che impedisce di prendere bene la mira risiede invece nella logica stessa della guerra aerea. Benché la prova dei fatti dimostri che si può aritmeticamente calcolare che, tutto andando bene, muoiono circa cinque civili per ogni insorto ucciso, la Nato non ha dato segni di voler cambiare strategia. Il fatto è che, come ammettono gli stessi militari, in Occidente nessuno se la sente più di rischiare un soldato al fronte. Si bonifica prima coi bombardamenti e quindi si interviene. Ma poiché non c’è la forza militare per «tenere» i villaggi conquistati, si va via e, al ritorno dei talebani, si ricomincia. Nessun contingente se la sente di rischiare la vita dei suoi uomini in un corpo a corpo con perdite altissime. In un resoconto sul Telegraph dell’anno scorso si citava il commento di un militare dopo la battaglia di Musa Qala (conquistata e poi persa): «Questo posto è peggio del Far West». Meglio le bombe. Nel giugno scorso, quando l’ennesimo raid della Nato con annessa strage aveva visto una durissima reazione di Karzai (e l’apertura di un’inchiesta dell’Alleanza), Acbar – un cappello di ong afghane e internazionali – aveva diffuso i numeri dello stillicidio di civili: almeno 230 nei primi sei mesi dell’anno. Ma secondo altre fonti si tratta di un bilancio per difetto. La rincorsa tra chi uccide più civili tra talebani e Nato sembra stia facendo prendere spaventosamente la bilancia dalla parte della Nato, che si sta pericolosamente avvicinando ai numeri di Enduring freedom, l’altra forza militare attiva in Afghanistan. E questo è il terzo e ultimo nodo.
La Nato non può aggiustare la mira perché il mandato con cui opera è confuso e oltre a non rispondere a un profilo militare deciso in sede internazionale (al Consiglio di sicurezza, ad esempio) deve anche fare i conti con quel che resta di Enduring freedom, la coalizione a guida americana che dei raid aerei ha fatto la sua bibbia. Senza chiarezza sul mandato dell’una e dell’altra missione, e non essendoci un’unica catena di comando (una risponde teoricamente a Bruxelles, l’altra a Washington), gli operativi si assomigliano sempre di più. Come si può distinguere una bomba Isaf da un siluro Usa? La verità è che purtroppo sono diventate la stessa cosa.

Lettera22