«Perché la Cina vincerà la sfida con il pensiero occidentale»

Secondo il filosofo e sinologo francese François Jullien, i cinesi concepiscono il reale «come un processo in continuo mutamento. Ciò che per noi sono gli eventi, per loro altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie del continuo lavoro di trasformazione. Questo è all’origine della grande efficacia della politica internazionale di Pechino»

La Cina è destinata ad essere oggetto di controversie: a volte lontana, dipinta come un paese esotico; altre volte così vicina da rappresentare la minaccia del XXI secolo. Chi ne elogia i ritmi di crescita economica e tecnologica, superiori a quelli di tutte le altre nazioni, chi punta il dito sullo smantellamento del comunismo. Eppure, nonostante gli scenari geopolitici ne accrescano l’importanza, la realtà cinese rimane un oggetto poco studiato. Poco indagata è anche la cultura di questo paese, forse per effetto dello stereotipo che qui da noi ha sempre considerato lo spirito orientale come incapace di pensare filosoficamente.
L’occasione inconsueta d’ascoltare una voce d’eccezione l’ha data il Festival di filosofia – in chiusura oggi a Modena, Carpi e Sassuolo – con la presenza di François Jullien, filosofo e sinologo, autore di Elogio dell’insapore, Trattato dell’efficacia e Il saggio è senza idee pubblicati in Italia da Einaudi.

L’idea fondamentale è che lo studio dell’Altro, della cultura cinese, possa meglio far conoscere la strada intrapresa dalla filosofia occidentale e le possibilità che sono state escluse dalla nostra storia. Agli antipodi del nostro modo di pensare si staglia il modello alternativo della saggezza cinese, fondata non sulla divisione e il primato dell’intelletto sui sensi, ma sulla non-esclusione, sul lasciare tutte le possibilità aperte.

In Occidente la filosofia nasce nel momento in cui stabilisce una differenza tra il mondo dei sensi e l’intelletto. Qual è invece la via della saggezza cinese?

Il “senso” è, da un lato, pura percezione e, dall’altra, al singolare, senso intellettuale, significazione. L’Occidente ha finito per pensare questi due aspetti distinti e contraddittori tra loro. Noi diciamo, ad esempio, che qualcosa ha un “sapore pronunciato”, è un modo di dire. Nella cultura cinese, invece, non ci si deve mai pronunciare, l’arte e la saggezza cinese evitano di “pronunciare con forza”. Al senso pronunciato dell’Occidente si contrappone un senso che resta sulla soglia, che non esce ma resta nell’indifferenziato. Un senso “insipido”, senza sapore, senza una caratteristica marcata e predominante rispetto alle altre, che si tiene distante dai sapori pronunciati come il dolce e il salato. E’ non solo un fatto gastronomico, è anche un rituale culturale, anche il Thao è insipido. E’ un’esperienza globale, un sapore che non esclude, che non è pronunciato e mantiene tutti i sapori disponibili. Entriamo in un sistema di percezioni e idee che privilegia non la distinzione, bensì l’allusione, l’elusione, la compossibilità. Se scelgo uno, perdo il due, questa è la cifra della cultura cinese. Ed ecco perché, a differenza della cultura occidentale dove tra sensi e significato c’è opposizione e contraddizione (A non è B), in quella cinese c’è invece congiunzione. Come si può pensare senza le categorie della tradizione occidentale? Non voglio dare un’immagine esotica e irrazionale della Cina, voglio soltanto dire che questo paese ha sviluppato una forma di saggezza alternativa al nostro pensiero e che consiste nella scelta di non scegliere, di tenersi in bilico tra le esperienze senza separare il vero da ciò che si ritiene falso. Per lo stesso motivo, il pensiero cinese ha lasciato nell’ombra il politico. La politica è un luogo di opposizione e di conflitto dove non c’è spazio per la compossibilità.

Qual è la differenza più rilevante tra l’idea cinese di politica e la politica così come la intendiamo noi?

Noi europei abbiamo costruito la politica sulla categoria di efficacia, sulla ricerca dei modi in cui una singola azione può inserirsi nella realtà e realizzare il fine. Le scelte e le azioni sono pensate a partire dal risultato. In Cina è completamente diverso: l’inserzione della mia azione nella realtà deve cogliere e seguire gli eventi fin dalla loro origine, deve appoggiarsi e assecondarli, farli crescere finché la situazione non diventa matura e precipita. Il momento più importante non è il risultato finale, ma l’inizio. Semmai l’efficacia cinese consiste nel cogliere al momento della nascita il percorso che poi condurrà la realtà alla maturazione. Nella mentalità cinese non troveremo mai l’elogio del soggetto, del “principe” per dirla con Machiavelli: quando un processo arriva a maturazione scompare anche lo stratega. Il soggetto non si vede. Stratega è colui che ha saputo tanto bene utilizzare la situazione e farla crescere, da scomparire egli stesso. E’ la situazione in quanto tale a maturare, che va da sé. Ecco perché la Cina è l’unica grande civiltà che non ha sviluppato l’epopea e non ha il concetto di eroe. Prendiamo il caso di Deng-Xiao Ping: è chiamato il “piccolo timoniere” anche se in trent’anni ha portato la Cina a un regime di mercato capitalistico.

Ma così l’individuo è relegato a un ruolo marginale?

Intanto bisogna distinguere tra soggetto e individuo. Il pensiero del soggetto è stato lento anche in Occidente, è arrivato con la svolta del Cristianesimo, attraverso Agostino, fino alla psicoanalisi. In Cina, il soggetto non è pensato. Nella lingua cinese manca il soggetto, è solo implicito. E nel pensiero cinese non c’è la riflessività che, passando per Kant, ha portato in Occidente alla scissione tra soggetto e oggetto e da qui alla costituzione della scienza. In Cina, questa opposizione tra soggetto e oggetto non è stata sviluppata. Ma è stato pensato l’individuale e, soprattutto, il rapporto tra individuale e collettivo.

Lei vede nella cultura cinese un modello di saggezza alternativa alla filosofia occidentale. Eppure oggi tutto lascia pensare che sia la Cina ad avvicinarsi all’Occidente e all’economia capitalistica. Cosa resta di quella saggezza alternativa?

Fino al XIV secolo le tecniche erano più sviluppate in Cina che in Occidente. A partire dalla rivoluzione scientifica l’Europa decolla sulla spinta dell’innovazione galileiana. La possibilità di applicare la matematica alla natura apre la strada alla scienza. E’ un’idea folle e feconda che ha divaricato lo sviluppo dell’Occidente rispetto a quello della Cina. Tutto il linguaggio della scienza da quel momento in poi sarà europeo e la Cina continuerà con uno scarto notevole a rimanere ferma per secoli e sarà lei a dover imparare dall’Occidente e a prendere le due cose che le mancavano: la scienza e la politica. Oggi siamo in un momento in cui la Cina sta superando l’Occidente. Ma il capitalismo importato non è l’unica cultura alla quale tutte le altre devono uniformarsi. Come diceva Mao, la Cina deve camminare su due gambe: il linguaggio della scienza e del capitalismo, e la tradizione cinese, una saggezza elusiva depositata in una cultura letteraria, molto più complessa da accostare di quanto si pensi. Deng-Xiao Ping, di nuovo, rappresenta questa compossibilità. Era stato in Europa ma continuava ad agire alla cinese, non si è mai opposto a Mao, in altri momenti si ritirava prima di farsi avanti, agiva come uno stratega cinese con le proprie risorse.

Qual è, allora, il ruolo specifico che spetta alla Cina nello scenario mondiale?

La Cina partecipa a tutti i dibattiti internazionali, siede in tutti i tavoli e cerca di trarre profitto in ogni situazione. Come? Per propria cultura la Cina dissolve ogni nozione di evento. Mi spiego. Per la mentalità cinese non potrebbe esistere qualcosa come l’11 settembre che per noi è diventata una data simbolica che sdoppia la storia in un prima e in un dopo. In Cina non ci sono eventi, la realtà è fatta piuttosto di una sottile, silenziosa trasformazione continua. Ciò che per noi sono gli eventi, per la cultura cinese altro non sono che piccole, sottili pellicole alla superficie di questo continuo lavoro di trasformazione. Il reale è concepito come processo in continuo mutamento. Questo è all’origine della grande efficacia della politica internazionale della Cina. Ad esempio, i cinesi si installano a Parigi, aprono i negozi, ma è un’emigrazione silenziosa, graduale, non spettacolare e non suscita, perciò, reazioni contrarie. La Cina non viene intercettata perché sfugge ai nostri riferimenti concettuali che sono quelli di “evento” e “fine”. La cultura cinese dissolve l’evento e la finalità in una processualità continua che le dà la chance d’imporsi senza trovare alcuna reazione. Non ci si può opporre a qualcosa che non ha forma d’evento.