La ridda di risentite polemiche suscitata dal telegramma di auguri per una pronta guarigione, indirizzato a Fidel Castro da Fausto Bertinotti, non è semplicemente un’estiva forzatura ai danni del Prc e della sua azione politico-istituzionale. Al di là delle prevedibili malevolenze di quanti identificano la libertà dei cubani con l’esilio reazionario (e, in più d’un caso, mafio-terrorista) di Miami, colpisce la sproporzione delle reazioni sollevate anche a sinistra da un episodio tutto sommato marginale. E’ evidente che la piccola isola caraibica con la sua rivoluzione e il suo “lider maximo” – da decenni vessata economicamente e sotto la costante minaccia militare della superpotenza nordamericana – non cessa, suo malgrado, di suscitare sguaiate ostilità ma anche di toccare, nel variopinto campo delle sinistre, corde concettualmente profonde. Voci autorevoli dall’interno di Rifondazione come quella di Pietro Ingrao, brillanti opinionisti compagni di strada e di governo del Prc come Michele Serra (cfr.: Castro e i silenzi di Fausto, la Repubblica del 14-8-06) non hanno risparmiato garbate ma ferme critiche.
Quest’ultimo ha nel merito riproposto uno schema di ragionamento ampiamente diffuso e che, in sintesi, induce a “fare il tifo per i cubani” ma non per Castro, essendo questi incluso senza appello nella lista nera dei dittatori. Si concede invero una distinzione tra chi si è reso responsabile di genocidi e chi “comprime i diritti civili”: ma si tratterebbe solo di una differenza di grado, nel quadro di una comune appartenenza alla categoria di dittatura. Sulla scorta di tale giudizio, occorrerebbe risolutamente abbandonare antiche e malriposte passioni («memorie di giovinezze ormai remote») e procedere ad un aggiornamento ideologico che lasci al loro residuale destino quanti intendano ancora baloccarsi con speranze ormai invecchiate.
Potremmo a questo punto prendere atto di una divaricazione di concezioni del mondo e registrare, in relazione al caso cubano, l’approdo di un’ampia parte di quella che fu la sinistra ad una compiuta posizione liberale – caratterizzata dall’applicazione di principi giuridici astratti, validi in ogni tempo e luogo e avulsi dalla concretezza storico-sociale. E chiudere qui la questione.
Invece, in particolare su un punto, provo a chiedere un surplus di riflessione e di aderenza ai fatti, nella consapevolezza di una vicenda che attraversa e fa discutere al loro interno le singole forze politiche. Dunque, Castro e Pinochet entrambi inclusi in una stessa lista, seppur distinti per grado di efferatezza? Non siamo qui in pieno revisionismo storico, con la proposizione di uno schema che riunisce forme di comunismo e di nazismo dentro un’indifferenziata cornice “totalitaria”? E perché, proprio mentre in Latinoamerica la rinascita dei movimenti sociali e di politiche progressive incontra e mantiene intatto il prestigio di Cuba e del suo gruppo dirigente, in Europa prende piede tanto accanimento e foga semplificatrice? Lasciando da parte i partiti presi e gli anatemi dell’anticomunismo viscerale, al fondo di tanto accalorarsi c’è – a mio parere – una grave quanto ipocrita ambiguità, concernente la stessa nozione di democrazia. Già il fatto aberrante che negli ultimi dieci anni intere popolazioni siano state bombardate per “esportarvi democrazia”, dovrebbe indurre gli spiriti più avveduti a maneggiare con grande cautela una nozione che appare oggi ridotta a pacchetto di regole formali, trasferibile (anzi, da imporre con la forza) indipendentemente dalla storia, cultura, condizione sociale, ambiente istituzionale peculiari a ciascun Paese. Da sempre le politiche di colonizzazione ed espansione imperialista hanno indossato le vesti della “missione di civiltà”, presupponendo la superiorità dei valori e delle istituzioni dell’Occidente: nel nostro caso appunto della “democrazia” (così come si è sviluppata nelle società a capitalismo avanzato).
Nel metodo, chiederei dunque maggiore sobrietà e attitudine problematica. Ma non intendo affatto glissare sul merito. E’ ad esempio significativa l’ostentata sufficienza con cui, nel già citato articolo, Serra fa un rapidissimo riferimento all’«eterna lista delle eccellenze cubane» (in cui sono evidentemente compendiate bazzecole quali l’alta speranza di vita e la bassissima mortalità infantile o la gratuità per tutti di cure sanitarie ed istruzione), per poi arrivare a marchiare a fuoco l’“enormità” delle violazioni di diritti individuali. Qui il peso dato alle cose è sostanza; ed esemplifica la portata delle nostre divergenze. Frei Betto, teologo della Liberazione che conosce assai bene la disastrata realtà del Latinoamerica, ritiene Cuba un luogo assai desiderabile per la massa di poveri di quel continente. E ricorda un manifesto esposto lungo il percorso che dall’aeroporto conduce al centro di L’Avana: “Questa notte 200 milioni di bambini dormiranno per le strade del mondo. Nessuno di loro è cubano” (cfr. www. peacereporter. net, 16-8-06). Si badi, non sto soltanto chiedendo di contestualizzare i giudizi: cosa peraltro sacrosanta. Sto dicendo che, rispetto alla valutazione di un sistema sociale, conquiste come quella suddetta non sono un optional ma appartengono al cuore della nozione di democrazia: questo è un punto dirimente, posto che non si ritenga che la stessa distinzione tra “democrazia sostanziale” e “democrazia formale” – un tempo acquisita dalla sinistra non solo comunista – sia un’anticaglia da lasciare al novero delle “speranze invecchiate”. Non a caso, ove esista un deserto sociale e in presenza di grandi sperequazioni di ricchezza non è impiantabile alcuna democrazia (anche solo formale), essendo i suoi dispositivi (elezioni, pluripartitismo ecc.) fatalmente ridotti in tale contesto a strumenti al servizio dei più forti.
Come dovrebbe essere noto, nel caso di Cuba siamo di fronte a ben altri condizionamenti. La rivoluzione cubana resiste da cinquant’anni in una situazione di permanente emergenza: accerchiata da un criminale embargo economico, insidiata da centinaia di atti terroristici (di cui ben 47 hanno attentato alla vita del suo leader), minacciata dalle dichiarazioni ufficiali e dalle ingenti risorse finanziarie che il più potente Stato del mondo continua a riservarle ai fini di una sua destabilizzazione politica. Tra simili difficoltà, il sistema cubano ha sin qui retto: vorrà pur dire qualcosa. Ma di tutto ciò i critici di Castro sembrano non tener conto. Al contrario dei popoli latinoamericani. E dei sandinisti, che in “libere” elezioni – indette nel 1989 sotto la pressione economica e militare statunitense – hanno visto costituirsi a suon di migliaia di dollari il partito di opposizione che li avrebbe sconfitti e che avrebbe riportato il Nicaragua nel gorgo della miseria e dell’ingiustizia sociale. Ha a che vedere o no tutto questo con la democrazia?