«No, non si fa. Applicare alla politica le categorie del marketing è cinico e riduttivo. Però…». C’è un però nel discorso di una pubblicitaria come Annamaria Testa. Ed è: però se le si chiede, come fa il manifesto, quanto appeal ha oggi la falcemartello, il simbolo che fu di Lenin a significare che la rivoluzione d’ottobre era stata fatta dagli operai e dai contadini poveri…«Ecco vede, la gente ancora si commuove. Però…».«Però i simboli devono avere una rispondenza con la realtà. Oggi in fabbrica chi lavora più con il martello? Nessuno. E in campagna chi lavora con il falcetto? Nessuno».
Terribile e elegante, moderno e archetipico, famoso e famigerato. Trinariciuto e ingombrante. Ma non c’è aggettivo che potrà salvare la falcemartello dalla rottamazione. Non sarà fra le insegne dell’imminente federazione della sinistra. Resterà sulle tessere dei due partiti comunisti (Rifondazione e Pdci). Ma un marchio politico che non va sulla scheda elettorale è fatalmente destinato alla dissolvenza. L’ultimo a rassegnarsi è Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, che sulla conservazione dell’attrezzistica rivoluzionaria ha consumato l’ultimo strappo. Novembre 2005, Armando Cossutta, presidente e padre del partito, nonché suo personale ispiratore, dichiarò al Corriere della sera che alla falcemartello si poteva rinunciare in nome di più avanzate alleanze. Tempo sei mesi l’anziano Cossutta, ultimo partigiano del parlamento, si accomodava nel gruppo misto del senato.
Benché anziana signora, la falce-martello esercita ancora un suo fascino. «Se non proprio un mercato, diciamo che ha un suo mercatino», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer. O, meglio, dice il collega Alessandro Amadori: «Ha avuto un grande mercato. Per fortuna non siamo più negli anni 90, quando si abbattevano i simboli. Ormai funziona il vintage». E non importa che i due oggetti sono ormai abbandonati in una rimessa, forse persino sconosciuti ai bambini del 2010. «Il reale significato non importa. Questo simbolo ha un potere comunicativo enorme. Il martello dà un’idea di pressione, la falce di taglio, di rivoluzione. Il lavoro e il cambiamento. Per l’eternità», dice Amadori. Ma, nel contingente: nel segreto dell’urna, dove Stalin ti guarda, può ancora funzionare? Perché fra le varie e ideali ragioni per le quali nel Pdci si resiste alla rottamazione, c’è la quasi certezza che qualcuno raccoglierà il simbolo e lo porterà sulla scheda elettorale. Che vale l’1-1,5 dei voti rossi, dice la voce comune. O no? Non è detto, secondo Ferdinando Pagnoncelli dell’Ipsos. «Per rievocare, questo simbolo ormai non ha più valore. Ha però il valore di ribadire. Intendo dice che sarà un elemento distintivo per un elettore un po’ confuso che affronta una scheda grande come un lenzuolo». E’ d’accordo il semiologo Omar Calabrese, uno dei padri della ‘Quercia’: «La falcemartello ha ancora un valore residuale. L’elettore si comporta così: se il simbolo nuovo è forte, quello vecchio lucra lo 0,1 per cento. Se è debole…». Ed è proprio il caso che temono quelli della Cosa rossa.
Chi sono i possibili nuovi falcemartellutì? Di sicuro Marco Ferrando, Partito comunista dei lavoratori: dove si è presentato ha preso l’1 per cento. Ma c’è chi teme il colpo di scena di Marco Rizzo, ormai in rotta con Diliberto. Ha appena pubblicato il libro Perché ancora comunisti che ha tutta l’aria di un preambolo a una contestazione in grande stile. «Questa unità a sinistra, sulla carta, è fatta al 70 per cento da comunisti. E non può avere, come sosteneva Diliberto fino all’ultimo comitato centrale, neanche un richiamo ai simboli del lavoro? Non sono d’accordo. Resto comunista, che ci posso fare? Ai tempi della Bolognina lo dicevamo tutti: il nome è la cosa. Quando uno smonta i simboli una ragione c’è. L’unità a sinistra cosa ha prodotto? Niente». Falcemartello, dunque, saranno raccolti dai custodi dell’ortodossia comunista? Non è detto. Salvatore Cannavo, deputato Sinistra Critica, l’area in partenza dal Prc, annuncerà la nascita di una nuova creatura a sinistra proprio l’8 dicembre, contemporaneamente all’assemblea della Cosa rossa. «Ogni volta che qualcuno butta qualcosa, mi viene da raccoglierlo. Sul simbolo rifletteremo. Ma sia chiaro: non ci interessa assemblare reduci. Abbiamo un altro progetto, più vitale». Cannavo viene dal trozkismo di Livio Maitan. Che aveva come simbolo una falcemartello rovesciata. «Non rovesciata, era quella originaria. Ma nel caso, sceglieremo la sua versione più conosciuta, la più sobria». Così elegante.