Per l’Africa dal G8 solo compassione

E sul clima impegni vaghi dal vertice dei Grandi in Scozia

Il clima? «L’accordo è sempre stato improbabile». L’Africa? «Gli unici che possono salvarla sono gli africani». Così parlò Tony Blair a conclusione di un summit che resterà memorabile soltanto per il suo corollario di sangue anche se, di fatto, è più di un mese che gli attivisti denunciano la mancanza di sostanza delle promesse blairiane. L’accordo degli otto grandi riuniti a Gleneagles «non è quello che tutti volevano, ma è un progresso», ha dichiarato in conferenza stampa, ma nei fatti è talmente inconsistente da costringere il primo ministro britannico a rinunciare alle trionfali perifrasi che gli sono abituali per elencare una lunga lista di impegni generici, vaghi e fumosi. I grandi, garantisce Tony, si sono «impegnati» a stabilire una data entro cui ridurre i sussidi agricoli e «vogliono tutti» portare a buon fine il negoziato sul commercio globale che si terrà a Hong Kong in dicembre, ma non c’è stato verso di strappargli una data, un impegno, un piano d’azione concreto.
Nemmeno i più addomesticati fra i giornalisti riusciranno a sostenere che è stato fatto qualche passo avanti sulle grandi questioni discusse a Gleneagles ovvero clima, sussidi, aiuti allo sviluppo e debito africano. In realtà, esaminando nel dettaglio le singole questioni, anche le minime concessioni faticosamente strappate vengono annacquate da una valanga di “però”. I 3 miliardi di dollari per i palestinesi, ad esempio, dipinti come una risposta concreta alla politica del terrore, dovranno però passare per le mani delle ong impegnate nei Territori perché gli americani non si fidano dell’Autorità palestinese. I 50 miliardi di dollari da stanziare in aiuti allo sviluppo sono in realtà vincolati a un’improbabile crescita economica del 2 per cento, il che vuol dire che se l’economia dei grandi continua a stagnare, gli aiuti sono destinati a restare nel capiente salotto delle buone intenzioni. Oltretutto quei 25 miliardi di dollari promessi da Bush, che dovrebbero raddoppiare entro il 2010, sono soltanto spiccioli paragonati alle spese militari. Per quella data infatti gli Usa ne avranno investiti almeno 2000, di miliardi, soltanto negli armamenti considerati necessari alla fallimentare guerra al terrore.

L’annuncio della donazione dimostra invece che l’amministrazione statunitense vuole continuare a tenere in mano le redini del “capitalismo compassionevole”, in parte per la nota insofferenza per ogni tipo di sistema multilaterale che stabilisca regole valide per tutti, in parte per conservare la possibilità di gestire questi fondi come una leva geo-politica da destinare ai governi amici e come una sovvenzione indiretta alle proprie imprese – in massima parte petrolifere – che freneticamente sono lanciate alla conquista del petrolio africano. Ecco perché si insiste sulle donazioni dirette e si glissa invece sulla decisione di stanziare lo 0,56 del Pil entro il 2010, per passare allo 0,7 entro il 2015, un altro passo indietro rispetto dall’accordo di Monterrey che aveva fissato allo 0,7 per cento del Pil la quota destinata agli aiuti allo sviluppo già nel 2002.