La situazione in Afghanistan è sempre più simile a quella irachena. Di conseguenza, sempre più pericolosa per i nostri soldati.
A lanciare l’allarme però, questa volta, non sono gruppi pacifisti o esponenti della sinistra radicale, come ci si potrebbe immaginare. Ad ammetterlo sono i servizi segreti italiani, nella relazione semestrale del Cesis, inviata ieri al parlamento. Nel territorio afghano, si legge nel documento, si registra «un quadro di pronunciata criticità, attestato tanto dall’incremento numerico degli episodi di violenza, quanto dal salto qualitativo delle attività del fronte antigovernativo, che ricomprende talebani e cellule di ispirazione qaedista». Se a questo si aggiungono «gli esiti incerti del programma di disarmo dei gruppi armati illegali», il quadro complessivo della situazione è, usando un eufemismo, «poco rassicurante». Che, in altri termini, vuol dire che i nostri militari si trovano a dover far fronte a una situazione sempre più complicata in un’area, sempre stando alla relazione dei servizi segreti, centrale per il terrorismo internazionale di stampo jihadista.
L’escalation di «dichiarazioni intimidatorie contro le forze della coalizione ed il governo Karzai» registrata negli ultimi mesi non fa che evidenziare sempre più «la valenza strategica e simbolica del teatro afghano per la galassia jihadista e la crescita dell’apparato mediatico della reale insorgenza», insiste il documento.
Per questo i nostri 007, nel corso del primo semestre dell’anno, hanno intensificato il monitoraggio delle attività dei gruppi estremisti a protezione dei contingenti italiani dislocati a Kabul e Herat, puntando contemporaneamente ad avere maggiori contatti con le autorità locali per rafforzare il consenso della popolazione alla presenza italiana e riuscire a migliorare il controllo del territorio per prevenire eventuali nuovi attacchi terroristici.
Che i nostri servizi segreti, in una relazione a tutto campo, in cui si va dall’eversione interna all’immigrazione clandestina, non escludono neppure sul nostro territorio: «Le preoccupazioni più forti per la sicurezza nazionale rimandano a un fitto reticolo di matrice fondamentalista attivo in molti paesi europei», fanno sapere. Ma l’uso delle «espulsioni preventive» di soggetti sospetti risultano «efficaci» per scongiurare il pericolo.
Tuttavia la preoccupazione più evidente resta l’«irachizzazione» della guerra afghana. «Il ricorso all’opzione suicida, prima pressoché inedita nella locale prassi eversiva, l’uso massiccio di armi artigianali, l’impiego dei sequestri nonché la spettacolarizzazione mediatica di decapitazioni di presunti collaborazionisti evidenziano una crescente assonanza tattica con il teatro iracheno», ammette il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza. Dove, sono sempre parole del documento, il livello di rischio per il contingente italiano impegnato nella missione Antica Babilonia resta sempre «elevato». Senza dimenticare, ribadiscono gli 007, che «il terrorismo internazionale di matrice islamica continua a rappresentare la minaccia prioritaria di respiro globale che, incentrata sui teatri di crisi iracheno ed afghano – ove alto è stato il tributo di sangue versato dai nostri contingenti – si sta irradiando lungo molteplici direttrici».
Ce n’è a sufficienza per dire che i nostri militari in Afghanistan non dovrebbero starci. E infatti i senatori di Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena, Francesco Martone e Lidia Menapace chiedono subito di riconsiderare la missione in Afghanistan, «sempre più somigliante a quella irachena». «È consolante – chiosa Lidia Menapace – che i nostri servizi segreti si siano accorti di quanto è ormai sotto gli occhi di tutti da mesi. L’Afghanistan è un paese in guerra, come lo è l’Iraq, e il governo dovrebbe seriamente riconsiderare la missione italiana su quel territorio come noi chiediamo da tempo».