Per i precari pensioni da fame. La media è di 85 euro al mese

Il vorticoso aumento della precarietà del lavoro giovanile non solo rischia di creare una generazione incapace di vivere con serenità il presente e di progettare il proprio futuro, ma di generare anche problemi sociali enormi, difficili da gestire, di cui magari ci si accorgerà tra qualche anno, quando milioni di anziani saranno costretti a lavorare anche dopo la pensione per non morire di fame. Uno scenario tutt’altro che irrealistico, se i dati hanno un valore. Basti pensare che l’importo medio delle 25mila pensioni di vecchiaia liquidate nel 2005 dalla gestione separata dell’Inps, quella cioè “alimentata” dai contributi dei “parasubordinati”, è di appena mille euro all’anno. Vale a dire, meno di 85 euro al mese, considerando 13 mensilità.
A sollevare il caso è il quotidiano “il Sole 24 Ore”, che ha esaminato nel dettaglio il rendiconto 2005 della gestione separata, definita nell’articolo la «gallina dalle uova d’oro del bilancio Inps». A fronte infatti della povertà degli assegni corrisposti, la gestione separata può contare su un rapporto tra entrate e uscite di “uno a ventinove”, ovviamente a favore delle prime. Questo perché il grosso dei parasubordinati è costituito da giovani, che andranno in pensione solo tra molti anni. Lavoratori, insomma, che contribuiscono senza “riscuotere”. Per ora.

La beffa è che i precari rischiano di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano anche quando avranno maturato il diritto alla pensione. «Una ricerca dell’Inpdap – ricorda il Sole 24 Ore – ha rivelato che nel 2035 un parasubordinato con 30 anni di contribuzione e 65 anni di età arriverà a un tasso di sostituzione (cioè il rapporto tra l’importo della pensione e l’ultima mensilità di compensi) pari al 30 per cento». In pratica, se l’ultima retribuzione è di 900 euro, la pensione non supererà i 270 euro.

Non solo, «c’è addirittura chi la pensione rischia di non prenderla nemmeno», avverte Roberto D’Andrea, del Nidil Cgil nazionale. Dai dati dal bilancio dell’Inps emerge infatti che solo un terzo dei collaboratori ha la continuità dei versamenti per tutto l’anno. «E quindi – osserva D’Andrea – difficilmente raggiungerà i requisiti minimi per accedere alle varie prestazioni».

Dalle proiezioni del Nidil, effettuate sulla base del reddito medio annuo dei collaboratori, che è di 10.840 euro lordi, viene fuori che «con 40 anni di contributi pieni, costoro prenderanno soltanto 30 euro in più rispetto all’assegno sociale, che è di 430 euro». Secondo il Sole 24 Ore, sulla pensione dei co. co. co. pesano «tre zavorre: il sistema contributivo puro, un’aliquota ridotta rispetto a quella dei dipendenti (il 18,2% contro il 32,7%) e il fatto che gli assegni futuri vengano alimentati da redditi comunque ridotti».

Di questi problemi intende occuparsi il nuovo governo «a partire dalla riduzione drastica dell’area della precarietà», sottolinea Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato. Per quanto riguarda le pensioni di «tutte le forme di lavoro “intermittente”», il programma dell’Unione prevede: la totalizzazione di tutti i contributi versati, anche in regimi pensionistici diversi; il progressivo innalzamento dei contributi previdenziali e la copertura figurativa dei periodi di non lavoro tramite l’erogazione di una quota fissa di pensione, finanziata per via fiscale.

Anche per il Nidil Cgil si deve partire «dalla stabilizzazione e riduzione dell’area di precarietà presente nel nostro paese». E tuttavia per coloro «che dovessero rimanere con contratti parasubordinati bisogna prevedere – propone D’Andrea – gli stessi diritti e gli stessi costi fissati per il lavoro dipendente dai contratti nazionali». Negli ultimi sei anni, con il passaggio dell’aliquota dal 10 al 18,2% si è notato che l’aumento della contribuzione è stato scaricato sul salario dei lavoratori. «Quindi si può equiparare l’aliquota – precisa D’Andrea – a patto che vengano equiparati anche i salari, altrimenti si creano ingiustizie. Nella legge 30 si parla di tabelle riconducibili per zona e settore: in realtà, ciascun datore di lavoro decide lui quanto dare».