Milano è lontana dall’Esquilino. Così pare. Di guardie moleste, come giovedì in Via Sarpi, che staccano contravvenzioni con ogni pretesto, non parla nessuno nei negozi cinesi spuntati come funghi nel quartiere più multietnico della Capitale. «No, anzi, qui ci vorrebbe qualche vigile in più», esclama la signora Lyn, 40 anni metà dei quali passsati a Roma, da dietro il bancone di un ingrosso di scarpe. E perché? «Ci sono troppi albanesi, quelli lì, scippatori», risponde col tono di chi ti fa una confidenza. La Cina è vicina.
Nel cortile della scuola Di Donato, al pomeriggio, ci sono gruppi di ragazzini di ognuna delle 22 nazionalità che popolano questo quartiere umbertino incastrato tra Termini e S.Giovanni, caduto in disgrazia da quando, negli anni ’70, gli scavi del metrò hanno fatto venire a galla le magagne dei costruttori sabaudi. Quattro cinesini sono seduti sulle scale e si palleggiano una palla da basket. Il loro portavoce dice di chiamarsi Simone, fanno le medie da queste parti. «Come a Milano? Non ci credo!», risponde. Gli altri annuiscono. E il razzismo? «C’è – risponde Simone – però non l’ho visto».
La Cina è vicina ma è riservata. «Riservata non significa chiusa», precisa Xiaoyng, 33 anni, operatrice nel progetto di mediazione sociale dell’Esquilino: «Gli orientali sono diversi dagli occidentali. Il primo dei problemi resta il pregiudizio. I primi cinesi sono venuti per lavorare, non hanno avuto il tempo di imparare l’italiano – spiega ancora – le seconde generazioni sono diverse. A Roma non è mai accaduto nulla di grave, come a Milano. Ma l’associazione commercianti denuncia il problema dei troppi controlli negli esercizi all’ingrosso. Controlli che spaventano i clienti. E altri controlli della polizia, stavolta nelle case, anche di notte, che spaventano i bambini». «Anche a Roma ci sono stati sequestri di merce e multe e chiusure di negozi. Spesso manca una comunicazione chiara tra chi governa e noi», conferma il signor Pan, presidente della consulta per l’immigrazione del Campidoglio e membro dell’associazione commercianti che chiede un incontro con sindaco e prefetto. «Dovremo lavorare di più – ammette la consigliera municipale dell’Ulivo, Letizia Ciccone – sull’educazione alla legalità. Gli esperimenti fatti sono incoraggianti».
«Ma non chiamatela Chinatown – avverte Pasqualino Fabi, capogruppo Prc nel Primo municipio – il quartiere ha una spiccata vocazione multiculturale e una serie di problemi legati alla deregulation del commercio e alla mancanza di programmazione. Anche se Veltroni ha provato a delocalizzare lo scarico merci e noi pensiamo di intervenire sugli orari. E’ importante non creare ghetti, sarà fondamentale capire il destino di alcuni stabili dismessi, come quello del Poligrafico dello Stato, speriamo non siano divorati dalla Sapienza». No, qui non è Chinatown. «Non è una città chiusa», riprende Xiaoyng. Nel mercato Esquilino, rinato nello spazio di caserme dismesse, infatti, sono più visibili i bengalesi che vendono alimentari e bigiotteria, ed è pieno di ristoranti indiani, coreani, nigeriani e “kebbabbari”. Tra le comunità il «rapporto non è brutto», assicura Bachu, bengalese, leader dell’associazione Dhuumcatu mentre fa colazione in un bar cinese spiegando che i ristoranti cinesi della zona sono pieni di famiglie italiane perché costano meno. E che se sono scomparsi i negozi per spose dal porticato di Piazza Vittorio magari è perché le ragazze italiane sono cambiate e che un kebab piace di più di 3 euro di pizza.
Via Sarpi è lontana ma qualcuno soffia sul fuoco. Un personaggio indigeno legato a Udc e a Militia Christi, estrema destra fondamentalista, tappezza il recinto del parco con foglietti allarmisti. Dev’essere rimasto choccato dalle bandiere rosse viste a Milano. Il suo referente politico in municipio lancia cifre da capogiro su negozi illegali naturalmente cinesi e lancia una festa della romanità. An vorrebbe avere un sindaco come Moratti. La Fiamma (attestata nella vicina Casa Pound, fortino blindato che si dichiara centro sociale non conforme) annuncia «ispezioni italiane» nei negozi cinesi per lunedì prossimo. Per un attimo in Piazza Vittorio si sparge la voce di una manifestazione di simili soggetti razzisti. Qualche saracinesca cinese va giù. Poi l’allarme rientra. C’è la paura della violenza e la violenza della paura.