L’esecuzione di Saddam Hussein è stata «una pietra miliare» sulla strada della costruzione di un Iraq democratico. Parola di George Bush. Poi un poco convinto accenno al «processo equo» che Saddam Hussein avrebbe avuto, per rimarcare che «non sarebbe stato possibile durante il suo terribile regime»; una quasi nascosta nota sui «progressi che gli iracheni hanno ottenuto»; l’obbligatorio omaggio al «sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme» e l’altrettanto obbligatoria – dato il momento – ammissione che quello che sta per finire è stato «un anno difficile per il popolo iracheno e per le nostre truppe». Bush ha affidato a una dichiarazione scritta il suo commento sull’esecuzione di Saddam Hussein. Niente giubilo come quando l’ex dittatore fu catturato, niente sorrisi trionfali come quando insisteva sul «mantenere la rotta», ma solo un annuncio senza faccia, seguito più tardi dalla conferma dei suoi portavoce che non ci sarebbero stati altri «atti pubblici» da parte del presidente. Venerdì sera Bush era andato a dormire poco prima dell’esecuzione (avvenuta quando qui erano le dieci) e aveva dato istruzioni di non svegliarlo per dargli la notizia dell’evento perché anche per lui e la sua signora era stata una giornata difficile. Sulla zona del Texas in cui si trova il suo ranch si era infatti abbattuto un tornado e la coppia presidenziale era stata costretta a rifugiarsi in un veicolo militare abbastanza pesante da infischiarsene delle raffiche del vento. «Il presidente non è mai stato in serio pericolo», avevano subito precisato i suoi portavoce per tranquillizzare chi eventualmente si fosse preoccupato, ma lo stress era stato forte e il leader del mondo libero aveva bisogno di riposare.
A consigliare quelli che lo gestiscono di persistere nel «basso profilo» adottato alla vigilia dell’esecuzione è stato sicuramente il momento particolare: ufficialmente Bush è intento ogni momento a «pensare alla nuova strategia» che deve annunciare per uscire dalla trappola irachena. Poi c’è stata sicuramente la pretesa di far credere che il processo, la condanna e l’esecuzione di Saddam erano «questioni interne irachene» su cui gli Stati uniti non volevano «interferire»; ed infine molto probabile è stata anche l’ultima mazzata propinatagli da un sondaggio che per i comuni mortali è uscito solo ieri ma che lui e i suoi uomini sicuramente già conoscevano. A renderlo particolare, questo sondaggio, è il fatto che è stato compiuto fra i militari e organizzato dalle quattro pubblicazioni ufficiali (una ciascuno per esercito, marina, aviazione e marines) per l’appunto militari. Bush, come si sa, si è sempre riferito allo «spirito» soldatesco per sostenere la sua guerra: quelli che la condannano sono «codardi», quelli che parlano di ritiro sono gente che «taglia la corda» di fronte al nemico e via spacconando, Ma ora sono proprio loro, la gente in divisa, a voltargli le spalle. Dice infatti il sondaggio che due soldati su tre disapprovano il modo in cui lui sta gestendo questa guerra, che solo uno su due crede che si possa vincere (nel 2004 erano l’83 per cento) e che quasi nove su dieci (l’87 per cento) sostengono che le truppe americane avrebbero dovuto lasciare l’Iraq da un pezzo.
Al basso profilo della Casa bianca ha corrisposto (più come causa che come conseguenza) quello della cosiddetta gente comune, molto più preoccupata delle morti dei soldati americani, ormai alla soglia dei tremila, che di quella di Saddam Hussein. Solo a Dearborn, la città del Michigan dove si trova la più vasta colonia di immigrati iracheni, c’è stata una specie di festa popolare. Gli immigrati, in gran parte fuggiti dal regime di Saddam Hussein, molti lasciandosi alle spalle la «scomparsa» di una o più persone care, hanno seguito insieme le notizie «in progress» che le tv fornivano e quando è arrivata la conferma che lui era morto si sono abbandonati a canti, balli, gioia e lacrime che mescolavano le pene subite, la fine della paura, la «gratitudine» per gli Stati uniti che a suo tempo li hanno accolti.
Per tutti gli altri, l’unico segno visibile (ma neanche tanto) che laggiù a Baghdad c’era stata l’esecuzione era lo stato d’allarme decretato già nella serata di venerdì, nel timore che ci potesse essere qualche «reazione». Niente di veramente serio, comunque. In pratica si è trattato dell’ordine trasmesso alle sedi periferiche del ministero della sicurezza interna e dell’Fbi di intensificare la vigilanza. Qualche pattuglia in più, qualche permesso revocato, ma niente di paragonabile al «semaforo» degli allarmi che negli anni del fervore e della paura scandivano allo stesso tempo il pericolo più o meno immaginario e l’automatico consenso per Bush che invece era estremamente concreto. Ora, l’amministrazione è in un tale stato depressivo che non osa più neppure il gioco del semaforo.