Pensioni, vaso di Pandora per tutti i governi

Quando una dozzina di anni fa si dibatteva sull’introduzione del metodo contributivo, un autorevole politico dell’epoca disse che il suo merito principale stava nello «sparigliamento» mediatico, cioè nella possibilità di utilizzarlo per ridurre anche consistentemente le prestazioni senza che ve ne fosse una diffusa consapevolezza. Per la verità, tra i pregi e i difetti di quel metodo c’è di meglio, ma non v’è dubbio che con la sua introduzione si riuscì a disegnare e a fare accettare tagli alle nuove pensioni rivelatisi perfino superiori alle aspettative; la piena consapevolezza degli effetti di quella scelta solo da poco sta superando la cerchia degli addetti ai lavori (dei quali, peraltro, pochi avevano capito dove si sarebbe arrivati).
I risultati finanziari delle riforme degli anni ’90 sono stati efficacissimi. La dinamica della spesa pensionistica in rapporto al Pil che era in forte crescita si è sostanzialmente stabilizzata dal 1997 intorno al 13,5% (quota che comprende anche le prestazioni di natura assistenziali), pur in presenza di una crescita del Pil molto deludente.
Le entrate contributive sono invece costantemente cresciute, con un balzo particolare dopo il 1995. Il saldo tra le contribuzioni e le prestazioni previdenziali registrato dalle statistiche è tuttora negativo per circa 12 miliardi di euro. Ma dal punto di vista del bilancio pubblico va considerato che le uscite effettive non includono la ritenuta d’imposta a carico dei pensionati (conteggiate nelle statistiche); il saldo tra le entrate e le uscite effettive del sistema pensionistico obbligatorio per le casse pubbliche è in effetti positivo per un ammontare pari a quasi un punto di Pil. La Commissione governativa incaricata di valutare gli effetti delle riforme degli anni ’90 ha accertato che nel decennio ’96-’05, i miglioramenti per il bilancio pubblico sono stati di quasi 11 miliardi di euro superiori alle previsioni iniziali del legislatore ( circa 74 miliardi).
I miglioramenti attesi per il futuro sono ancora più significativi. Le previsioni effettuate prima degli anni ’90 stimavano infatti un valore massimo del rapporto tra spesa pensionistica e Pil fino al 25,3%, contro un massimo di circa il 15,2% a seguito delle riforme. Questi miglioramenti hanno avuto naturalmente degli effetti sul grado di copertura del sistema pensionistico.
Nel sistema retributivo la vulgata (sostanzialmente esatta) era che nel settore privato, per calcolare la pensione bastava moltiplicare per 2 gli anni di contribuzione: cioè, con 35 anni di anzianità si acquisiva una pensione pari al 70% dell’ultima retribuzione e con 40 anni si arrivava al massimo dell’80%. Nel settore pubblico i trattamenti erano mediamente migliori di circa dieci punti. Con il sistema contributivo a regime, un lavoratore dipendente (pubblico o privato) che va in pensione a 60 anni con 35 annualità contributive maturerà una pensione pari a circa il 48%; un lavoratore parasubordinato (figura nemmeno considerata dalla riforma del 1995), se riuscirà ad acquisire la stessa contribuzione, avrà una pensione pari al 32% (aumenterà a circa il 40% quando andrà a regime l’incremento dell’aliquota contributiva deciso nell’ultima legge finanziaria).
Poiché nel 1992 è anche stato abolito l’aggancio delle pensioni all’andamento reale delle retribuzioni, i pensionati vedranno i loro redditi ridursi sempre più rispetto a quelli dei lavoratori: quel 48% rispetto alla retribuzione maturato a 60 anni dal lavoratore dipendente, dopo dieci anni di pensionamento si ridurrà (immaginando una crescita media annua del Pil dell’1,5% e una dinamica salariale del 2%) al 40% della retribuzione di chi continua a lavorare e al 33% dopo 20 anni dal ritiro dal lavoro (per i lavoratori parasubordinati l’impoverimento relativo seguirà una traiettoria corrispondentemente più bassa).
Sulla base di questi dati di fatto è oramai chiaro (o dovrebbe esserlo) che il vero problema posto dal nostro sistema pensionistico non è la sua sostenibilità finanziaria ma la sua sostenibilità sociale e gli effetti economici che ne discendono. Tuttavia, per lo più richiamando l’aumento della vita media come fosse una colpa da espiare, valutandone gli effetti in modo scollegato dal contesto economico e occupazionale in cui si verifica e attribuendoli esclusivamente al sistema pensionistico pubblico, l’attenzione di molti commentatori e politici è di nuovo concentrata: da un lato, su progetti di ulteriore peggioramento delle condizioni offerte dal sistema pubblico e, d’altro lato, sulla pretesa che una sua sostanziosa sostituzione da parte del sistema privato sarebbe risolutiva.
Quest’ultima è la linea di riforma più strutturale che da molti anni si sta cercando di attuare, anche perché è funzionale alla miope visione di politica economica che ha dominato e tuttora è forte nel nostro paese. Si tratta della politica imposta dai nostri settori produttivi più maturi e conservatori che continua a perseguire la competitività riducendo gli oneri salariali anziché investendo in settori e metodi innovativi. Non è un caso che il primo provvedimento rilevante preso dal Governo Berlusconi fin da subito fu il disegno di legge per ridurre la contribuzione delle imprese al sistema pubblico («cuneo fiscale») e a favorire – a spese del bilancio pubblico – uno sviluppo di tipo sostitutivo (non «complementare», cioè «accessorio») dei fondi pensione. Ma, anche a causa dell’opposizione politica e sociale di allora e degli ostacoli opposti dall’andamento fortemente instabile dei mercati finanziari, quel progetto è rimasto tale per tutta la passata legislatura; tranne che, nella sua parte finale, la cosiddetta «riforma Maroni» stabilì che nella legislatura successiva (dal 2008) sarebbe scattata una serie di provvedimenti in quella direzione. In particolare, di fronte ai tassi di copertura pensionistici del tutto inadeguati prima ricordati, ai lavoratori si offriva l’unica possibilità di impiegare le risorse destinate al Tfr per finanziarsi l’adesione alla previdenza privata che pure presenta maggiori rischi (del tutto contrari alla logica della «previdenza» e «sicurezza» sociale), maggiori costi (legati alla gestione delle riserve), e implicazioni significativamente negative per l’allocazione del risparmio previdenziale (i fondi pensione, proprio a causa della struttura «matura» del nostro sistema produttivo, investono in azioni di imprese nazionali solo il 2,3% delle risorse che gestiscono, mentre il 77% finanzia la nostra concorrenza straniera).
Rimandiamo ad un prossimo articolo anche per un’argomentazione più dettagliata di questi ultimi aspetti e del ruolo positivo che pure i fondi pensione potrebbero svolgere se, appunto, di natura «complementare». Adesso, come conclusione provvisoria, va sottolineata una preoccupante assonanza tra la piega che sta assumendo il dibattito attuale e lo «sparigliamento» inizialmente ricordato nel dibattito sulla riforma del 1995. Nonostante in autunno fosse stato deciso di rimandare al 2007 il dibattito sulla nuova «riforma» – la cui attenzione, peraltro, viene essenzialmente polarizzata sul pur importante aspetto dell’età di pensionamento (anche su questo si tornerà) – si sta fondamentalmente ignorando che la «riforma» sostanziale è stata già pregiudicata accettando, anzi anticipando, la decisione del governo Berlusconi di affidare esclusivamente ai fondi pensione privati la possibilità di risollevare la copertura pensionistica offerta dal sistema pubblico.