Gli interventi previdenziali proposti dal governo sembrano trovare la giustificazione primaria nella insostenibilità finanziaria dell’assetto delineato dalle riforme degli anni `90. Ma è davvero così? Per valutarlo è opportuno richiamare alcuni dati.
La spesa pensionistica rapportata al Pil, che nel `97 aveva raggiunto il valore massimo del 13,9%, a seguito delle riforme degli anni’90, è scesa fino al 13,5% nel 2000 e ne12001; ne12002, dopo alcuni provvedimenti decisi dal governo m carica e anche per effetto della bassa crescita del Pil, il rapporto è risalito al 13,8%. La verifica dei risultati delle riforme degli anni 90 effettuata dall’attuale governo ha stabilito che i risparmi di spesa sono e saranno superiori a quelli previsti: del 10% (pari a 2,87 miliardi di euro) per il periodo 1996-2000 e del 17% (7,92 miliardi di euro) nel periodo 2001-2005.
Le comparazioni europee, se svolte con criteri omogenei, smentiscono la presunta superiorità della nostra spesa pensionistica rapportata al Pil. Infatti, nelle statistiche Eurostat, il dato italiano -che risulta superiore di 3,4 punti alla media europea, è relativamente sovrastimato: per 1’indebito inserimento del Tfr (pari a circa 1,4 punti); per 1’inclusione delle trattenute fiscali sulle pensioni (pari a circa 2 punti di Pil) che negli altri paesi o non esistono affatto (Germania) o sono di gran lunga inferiori; per 1’inserimento nella voce pensionistica di misure (come i prepensionamenti) che in altri paesi sono contabilizzate tra gli ammortizzatori sociali o nella politica industriale.
Il saldo tra le prestazioni pensionistiche previdenziali e i corrispondenti contributi sociali è negato per una somma pari a circa l0 0,9% del Pil. Tuttavia, tenendo conto delle trattenute Irpef operate sulle pensioni, nel bilancio pubblico le uscite effettive sono inferiori alle entrate contributive per una somma pari a circa 1,1 punti di Pil.
Prima delle riforme degli anni ’90, le previsioni per il prossimo mezzo secolo segnalavano che il rapporto tra spesa pensionistica e Pil sarebbe salto fino a1 23%.
Dopo le riforme, nella proiezione che segna la cosiddetta gobba” (ma ne esistono di meno pessimistiche, vedi grafico), la crescita si ferma a circa il 16%; 1’aumento massimo nel periodo è pari solo ai 2/3 di quello previsto per la media dell’Ue.
Il sistema pensionistico deve essere valutato anche per la continuità di reddito che assicura durante la vecchiaia. Prima delle riforme degli anni 90, indipendentemente dall’ età, un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità contributiva maturava una pensione pari a16ó % (nel settore privato) o al 77 /o (nel pubblico) dell’ultima retribuzione. Nel sistema contributivo a regime, adeguando il calcolo all’aumento atteso della vita media, un lavoratore dipendente (sia nel settore pubblico che nel privato) che andrà in pensione con 35 anni di contributi a 60 anni di età avrà una pensione pari al 48,5% dell’ultima retribuzione. Nell’ipotesi massima di 40 anni d’anzianità e 65 anni d’ età, il “tasso di sostituzione” salirà al 64%. Per un lavoratore parasubordinato, il tasso di sostituzione sarà, rispettivamente, di quasi il 30% e il 39%. L’eliminazione dell’indicizzazione delle pensioni all’andamento reale delle retribuzione decisa nel 1992 fa sì che la distanza tra il reddito di un pensionato e quello medio dei lavoratori aumenti progressivamente nel periodo di pensionamento.
Vediamo adesso gli obiettivi e i presumibili effetti delle proposte governative, iniziando dalle due misure più, strutturali già contenute nel disegno di legge presentato nel 2001. La decontribuzione a vantaggio delle imprese, pur avendo effetti anche significato sul sistema pensionistico, è motivata dall’obiettivo primario di abbassare il costo del lavoro e migliorare la competitività. Peraltro, il costo del lavoro per unità di prodotto italiano è già il più basso m Europa; sarebbe mvece estremamente necessario migliorare la componente. qualitativa della nostra competitività, per non declassarci a competere al ribasso con le economie emergenti e i loro standard sociali.
Se la decontribuzione avrà effetti attualmente corrispondenti sull’ammontare delle prestazioni, queste ultime si ridurranno di un ulteriore 17% rispetto ai livelli di copertura sopra ricordati (ci sarà dunque una redistribuzione diretta dai salari ai profitti). Se invece i minori contributi versati dalle imprese verranno compensati dalla fiscalità generale, 1’equilibrio attuariale
del sistema pensionistico risulterà consistentemente alterato e per il bilancio pubblico si determinerà un peggioramento strutturale. In ogni caso, per le casse della pubblica amministrazione ci sarà una progressiva riduzione delle entrate la cui dimensione annua arriverà in breve tempo allo 0,8% del Pil. La seconda misura strutturale ha 1′ obiettivo di dirottare gli accantonamenti per il Tfr (pari al 6,7% del salario lordo) verso i fondi pensioni privati at quali si attribuisce una funzione sostitutiva e non integrativa rispetto alla previdenza pubblica. In sette anni essi arriveranno a gestire un patrimonio pari a circa 100 miliardi di euro. Data la congenita scarsità di nostre imprese quotate in Borsa, già oggi i fondi esistenti impiegano molte imprese nazionali solo il 16% delle risorse relativamente esigue che attualmente gestiscono (circa 4 miliardi di euro); quando disporranno dell’ingente mole di risparmio sottratto
I due aspetti strutturali della riforma pensionistica non hanno, dunque, connessioni reali con gli eventuali problemi di sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico pubblico. all’attuale disponibilità dei lavoratori e delle imprese, è facile prevedere che dovranno impiegarne all’estero una parte ben superiore di quella attuale. Uno sviluppo consistente della previdenza a capitalizzazione aumenterà i costi di gestione del sistema pensionistico e trasferirà anche sui redditi da pensione 1’accresciuta instabilità dei mercati finanziari mondiali; 1’impiego del Tfr aumenterà i già preoccupanti problemi di finanziamento esistenti sia per i consumi dei lavoratori, sia per il nostro sistema produttivo.
Rimane il fatto che 1’invecchiamento demografico rende più oneroso per la quota decrescente della popolazione in età attiva 6nanzíare le pensioni del maggior numero di anziani. Tuttavia, fino a quando permangono gli attuali elevati tassi di disoccupazione e le imprese cercano di liberarsi di lavoratori anche solo cinquantenni, diventa inutile preoccuparsi della riduzione relativa della popolazione in età attiva e contraddittorio cercare di aumentare 1’età di pensionamento. Quest’ultimo obiettivo dovrebbe essere perseguito con riferimento al medio e lungo periodo. Va tuttavia considerato che 1’applicazione del metodo contributivo, riducendo il grado medio di copertura pensionistica e premiando attualmente chi va in pensione in età più elevata, sta già innescando una tendenza spontanea a prolungare la vita attiva.
Lo slittamento forzoso a 40 anni dell’anzianità contributiva e a 60 (donne) 0 65 (uomini) anni dell’età per il pensionamento a partire dal 2008 non può essere accreditato della capacità di generare futuri ingenti risparmi di spesa pari ad un punto di Pil perché la tendenza spontanea va già in quella direzione. In realtà, 1’obbiettivo di questa misura sembra esaurirsi nel poterla esibire alla Commissione europea come una riforma strutturale e ottenere in cambio (subito) un allentamento dei vincoli di bilancio posti dal Patto dì stabilità. Coerentemente alla filosofia di molte altre misure di politica economica già prese, il governo cerca di anticipare al presente benefici finanziari derivanti da possibili eventi futuri che, in questo caso, dovranno essere applicati (con evidenti oneri politici) dal governo in carica nella prossima legislatura.