Una questione centrale è rimasta in ombra nel dibattito sull’invio degli alpini in Afghanistan: a differenza dei militari già impegnati nella forza internazionale di sicurezza dislocata a Kabul a protezione del governo Karzai, essi saranno impiegati in operazioni di combattimento sotto il diretto comando statunitense. A comandare le forze terrestri in Afghanistan, sia degli Stati uniti che di altri paesi, è il tenente generale a tre stelle dell’esercito Usa, Dan K. McNeill, il cui quartier generale si trova a Bagram, un’ex base sovietica a nord di Kabul. A sua volta, il generale McNeill è agli ordini del generale Tommy Franks, a capo del Comando centrale (CentCom) responsabile dell’area che comprende l’Afghanistan, il cui quartier generale è a Tampa in Florida. Questi, a sua volta, è agli ordini del Pentagono. Il contingente italiano sarà dunque inserito nella catena di comando statunitense: sarà il generale McNeill a decidere, in base alle direttive ricevute dal quartier generale del CentCom, quali zone dovrà rastrellare, quali incursioni dovrà compiere. Gli ufficiali italiani saranno praticamente relegati a compiti operativi e di collegamento. Ciò significa che, una volta in Afghanistan, il contingente non sarà più nei fatti agli ordini dello stato maggiore italiano, la cui funzione si limiterà al sostegno logistico. Né dipenderà dal nostro ministero della difesa e, tantomeno, dal parlamento che, qualunque cosa accada, non avrà alcun potere decisionale (salvo quello di ritirare il contingente). La questione non è tecnica, ma politica: si tratta non solo di un’altra grave violazione dell’articolo 11 della Costituzione, ma di una completa rinuncia alla sovranità nazionale.
Le conseguenze sono prevedibili. Il contingente sarà probabilmente dislocato a Khost, in una delle aree che lo stesso generale McNeill definisce «da un punto di vista tattico, più problematiche» (Npr, 26 agosto 2002). La sua forza principale sarà costituita dal battaglione alpini-paradutisti Monte Cervino, composto esclusivamente di volontari – i ranger – addestrati al combattimento diurno e notturno, sia su terreni montuosi che in centri abitati, ed esperti in imboscate. I ranger – spiega Analisi Difesa (anno 2, n. 18) – sono in particolare addestrati alla «acquisizione delle reazioni automatiche immediate» e alle «tecniche di tiro mirato e istintivo». In altre parole, a sparare d’istinto, ancor prima di pensare. Ci sono dunque altissime probabilità non solo che qualcuno dei ranger venga ucciso, ma che molti afghani vengano uccisi dalle «reazioni automatiche» dei ranger.
Naturalmente, come avvenne in Somalia dove ogni ucciso veniva chiamato «bandito», gli afghani che cadranno sotto il «tiro istintivo» dei ranger saranno tutti definiti «talebani» o «terroristi di al-Qaeda». E non saranno, per questo, compianti nelle cerimonie ufficiali. Comunque, in caso di «errori» nel «tiro istintivo», nessuno sarà deferito alla Corte penale internazionale dell’Aia: lo garantisce l’appartenenza alla catena di comando statunitense.