«Oggi il tempo è maturo per dar vita insieme ad altre forze politiche e organizzazioni sociali e culturali a quel partito nuovo che il paese domanda. Solo in questo modo la lunga transizione che ha preso le mosse nell’89 potrà dirsi compiuta». Finito il Novecento, morti il comunismo e la socialdemocrazia, sepolte origini e genealogia, della tradizione comunista resta pur sempre lo storicismo: il tempo procede progressivo e lineare, la necessità storica domanda, il partito risponde. Restano anche i trucchi, perché a richiedere il nuovo partito non è affatto il paese, che non risulta l’abbia invocato a gran voce, ma più modestamente il sistema politico, che dopo tre lustri di transizione cerca ancora quel centro di gravità permanente che il partito democratico dovrebbe nelle intenzioni fornirgli.
E’ vero comunque che la storia del partito che a partire da oggi si scioglie al Mandela Forum di Firenze è intrecciata indissolubilmente con la transizione italiana, tanto da metterne in questione l’inizio: che infatti, più che nel crollo del sistema politico della cosiddetta prima Repubblica nel ’92, va datata al crollo del Muro di Berlino e alla svolta della Bolognina nell’89, cioè alla decisione di sciogliere il Pci e trasformarlo «in una cosa più grande e anche più bella», come disse l’allora segretario Achille Occhetto. Il quale, pur avendolo di recente sconfessato come tradimento più che compimento della svolta, sul piano storico resta l’iniziatore del processo che di qui a poco sfocierà nel Partito democratico. E resta anche l’iniziatore di quella «fraseologia della svolta» (così la definì nell”89 l’ironia affilata di Cesare Luporini) che da allora in poi ha dato espressione alla inesausta ricerca d’identità dei post-comunisti italiani: il «nuovo» come criterio dirimente contrapposto al «vecchio», la decretazione della fine di ogni eredità novecentesca, la costruzione di «cose» (la Cosa1 occhettiana prima e la Cosa2 dalemiana poi) e carovane in luogo della forma-partito (che oggi torna in auge ma ormai completamente destrutturata), l’andare «oltre» ogni esperimento noto, la sostituzione del mito del socialismo reale con quello della democrazia reale. Uguale è rimasta del resto quella sospensione fra passato (più e più volte revisionato) e futuro (catarticamente invocato) che ancora oggi dà luogo alle oscillazioni sul «pantheon».
E’ da escludere tuttavia che tornino a scorrere a Firenze per lo scioglimento dei Ds le lacrime che furono versate nel marzo del ’90 a Bologna per lo scioglimento del Pci, quando piansero tutti, da Occhetto che guidava la svolta a Ingrao che la contrastava a D’Alema che l’appoggiava ma non senza nominare il lutto che si stava consumando.Diciassette anni dopo la laicizzazione è compiuta, e ogni commozione è spenta come ogni passione: nessuno piangerà, progettando il nuovo partito, per la fine di quello attuale. Non fu del resto altrettanto emozionata la nascita del Partito democratico della sinistra dalle ceneri del Pci: né lutto né festa risuonavano dal palco del congresso di fondazione a Rimini nel ’91, già segnato dalla scissione di un pezzo della sinistra contraria alla svolta.
Il successivo congresso «tematico», luglio ’95, non fece storia; ma nel frattempo moltissima acqua era passata sotto i ponti, miscelando la transizione del partito post-comunista con quella del sistema politico italiano. Dalla valanga di Tangentopoli il Pci-Pds era uscito vincente, aiutato generosamente dalla soluzione giudiziaria del problema craxiano e democristiano e cavalcando – salvo meritorie eccezioni – sia il clima giustizialista sia il mito del maggioritario che trionfante al referendum elettorale del ’92. Le elezioni amministrative del ’93, le prime con l’elezione diretta dei sindaci, avevano premiato il Pds; ma il ciclone Berlusconi aveva sconfitto la coalizione dei Progressisti nel ’94, portando Occhetto alle dimissioni. D’Alema era diventato segretario nell’estate del ’94, battendo sul filo Veltroni che pure era stato vincente nella consultazione del partito. La rotta occhettiana della svolta era stata corretta: meno «nuovismo» e più riformismo, meno società civile e più partito, meno giustizialismo e più riforme costituzionali. I risultati si videro nel ’96, con la costruzione dell’Ulivo, la vittoria elettorale su Berlusconi, il primo governo Prodi e l’istituzione della Bicamerale presieduta da D’Alema. Ma il conflitto interno al Pds restava forte se non incomponibile: fra occhettiani e dalemiani sulla visione della transizione istituzionale e selle riforme costituzionali, fra dalemiani e sinistra sul welfare. Soprattutto quest’ultimo segnò il congresso di Roma del febbraio ’97 – sei anni dopo quello di fondazione del partito, «un tempo a cavallo – disse allora D’Alema – fra due stagioni della nostra democrazia» – con lo scontro fra il segretario e il leader della Cgil Cofferati. Risale a quel congresso anche la costituzione di quell’area della sinistra del partito (ma Mussi non ne faceva ancora parte) che oggi si prepara a uscire dal processo di costruzione del Pd..
Il processo di revisione storica si esercita intanto sulla figura di Enrico Berlinguer, reo di aver mancato l’incontro con la modernizzazione (craxiana), e apre al recupero dei socialisti. Gli Stati generali della sinistra, Firenze ’98, aprono al contributo di altre culture di matrice social-democratica e sostituiscono falce e martello con la rosa del socialismo europeo. I Democratici di sinistra nascono il 13 febbraio del ’98, otto mesi prima della crisi del primo governo Prodi, della successiva investitura a premier di D’Alema e del passaggio di consegne a Veltroni alla guida del partito. «I care» è lo slogan veltroniano del congresso di Torino, gennaio 2000; globalizzazione, riformismo, diritti, guerra, memoria le parole più contese fra la maggioranza e la sinistra del partito. Preparando il congresso, il nuovo segretario ha stabilito «l’incompatibilità fra comunismo e libertà».
D’Alema si dimette da premier dopo la sconfitta alle regionali del 2000. Berlusconi si riprende Palazzo Chigi l’anno dopo, Veltroni diventa sindaco di Roma, Fassino segretario del partito (61% dei voti) nel congresso straordinario del novembre 2001, dove prende corpo il «correntone» della sinistra (questa volta con Mussi, Cofferati, Giovanni Berlinguer ea ltri). Il congresso successivo dei Ds, il terzo della serie, si tiene a Pesaro dal 3 al 5 febbraio 2005 su quattro mozioni e con un vocabolario eclettico che cerca senza efficacia una nuova definizione del riformismo. Il resto è storia recente. Nel frattempo il partito post-comunista, soffocato da un’indigestione di svolte ideologiche, ha imparato a declinare la guerra in termini etici e umanitari, non è riuscito a imporre un disegno di riforme costituzionali, non è diventato più ospitale per le donne di quanto fosse il vecchio Pci. E non ha messo al mondo un’interpretazione convincente del mondo globale post-11 settembre. Ci riuscirà a Firenze, gettando per l’ennesima volta il cuore oltre l’ostacolo?