PCF, ancora in mezzo al guado

Il Partito comunista francese (PCF) ha concluso il suo congresso nazionale a Parigi il 13 dicembre 2008.

Il congresso non ha sciolto i nodi strategici e di identità che lo hanno attraversato. Ne esce un gruppo dirigente ancora “in mezzo al guado”, per usare una famosa definizione che fu coniata in Italia per definire lo stato della mutazione interna al PCI nella seconda metà degli anni ’80, prima della Bolognina, ma che potrebbe negli anni a venire risolversi – nel PCF – con un esito diverso rispetto a quello che segnò l’autodissoluzione del partito italiano.

La composizione del nuovo Comitato Nazionale (CN) non corrisponde al consenso raccolto dai diversi orientamenti che si erano espressi nella consultazione di fine ottobre fra i militanti del PCF sui vari documenti in campo (vedi qui articolo sulla consultazione). Le proporzioni tra le basi di consenso alle diverse piattaforme sono state infatti in buona parte falsate – nell’assise nazionale conclusiva – da un processo di selezione dei delegati di federazione e nazionali che ha penalizzato pesantemente le tendenze di sinistra e che ha favorito, nella composizione dell’organismo, le tendenze interne ed esterne alla maggioranza, favorevoli allo scioglimento del PCF e ad una sorta di progetto Linke alla francese. E ciò, nonostante la maggioranza raccolta attorno a Marie George Buffet (segretaria uscente, riconfermata col 67%, rispetto al 91% del congresso scorso) abbia sostenuto un documento congressuale che almeno a parole nega lo scioglimento del PCF e sia stata costretta dai delegati ad accettare un emendamento che esclude per il partito ogni “metamorfosi”: termine ambiguo che era presente nella versione originaria del documento congressuale.

La versione finale del documento ha ottenuto il voto favorevole del 68,7 % degli 873 delegati, il 24,1 % di contrari, il 7,2 % di astensioni. La destra lo considera una “vittoria del polo dei conservatori sul polo dei rifondatori”, con una “regressione identitaria” e “concessioni all’ala più dura del partito” . Mentre un esponente storico della direzione, vicino alle posizioni della sinistra (anche se formalmente pronunciatosi per il documento di maggioranza) giudica il testo approvato “un po’ moscio” quanto a riferimenti all’identità comunista.

Nonostante tutto ciò, il nuovo CN, eletto sulla base di quattro liste alternative (una di “destra”, due di sinistra, e una lista “ufficiale”), vede comunque un rafforzamento delle posizioni di sinistra, rispetto all’organismo precedente.

Ma andiamo con ordine.

Come abbiamo illustrato più in dettaglio nel citato articolo sulla consultazione, il PCF è un partito che formalmente “respinge la formalizzazione delle correnti, e i suoi congressi si svolgono ormai da molti anni con la seguente modalità:
-prima i militanti si pronunciano sui diversi documenti che vengono proposti alla discussione dalle diverse piattaforme esistenti e quindi votano per decidere, a maggioranza, quale sarà la base comune di discussione del congresso (e in questa fase non si eleggono delegati ed organismi);
-poi, decisa la base comune, su quell’unico documento si svolge il congresso nelle sezioni e federazioni, fino all’assise nazionale; si eleggono delegati ed organismi (con modalità non “correntizie”) e naturalmente si possono a tutti i livelli presentare emendamenti o testi alternativi alla base comune, ma non si vota più su documenti nazionali distinti (una sorta di mix tra riconoscimento delle diverse piattaforme ed esclusione della loro formalizzazione in correnti)”.

Dalla consultazione è emerso che le tendenze dichiaratamente di sinistra, che si presentavano alla consultazione con due documenti (più una tendenza emendativa, interna al documento di maggioranza, anch’essa costretta, all’assise nazionale, a presentare una lista alternativa per il CN per evitare la pressoché totale esclusione) rappresentavano complessivamente nel corpo votante del partito il 45-50% circa; quelle di maggioranza il 40-45% circa (concentrato però su un unico documento, uscito quindi maggioritario); e la destra, esplicitamente liquidazionista, che si era sottratta alla consultazione ed aveva invitato ad astenersi, circa il 10%.

Finita la consultazione, il congresso si è svolto su un unico documento congressuale, quello passato a maggioranza, ed il processo di selezione dei delegati, fino al congresso nazionale, è avvenuto (come avveniva anche nel PCI fino a poco prima della Bolognina), non su basi proporzionali ai diversi documenti, ma su basi di consenso individuale al singolo delegato (il che ovviamente favorisce chi controlla l’apparato e l’organizzazione). Per cui, ad esempio:

-la destra liquidazionista, che nella consultazione aveva raccolto un 10% circa (le astensioni), al congresso nazionale ha avuto sulla sua lista il voto del 16,4 % dei delegati;

-le tendenze esplicitamente differenziatesi a sinistra – che avevano raggiunto il 45-50% effettivo di consensi nella consultazione – hanno avuto al congresso nazionale il 15,9 % di voti sulle due liste alternative su cui si sono articolate;

-la maggioranza uscente, che nella consultazione aveva a malapena raccolto il 40-45% dei consensi, nella lista ufficiale ha avuto il 67,7%.

Per essere ancora più precisi, va detto che, all’assise nazionale, nella “lista ufficiale” presentata dalla maggioranza, erano presenti simbolicamente anche alcuni esponenti delle altre piattaforme, di destra (molti) e di sinistra (pochissimi), scelti ad hoc dalla direzione uscente, al fine di poter presentare tale lista ai delegati come “espressione unitaria di tutto il partito”, e rendere “frazionisticamente” impopolari le liste alternative.

Bisogna inoltre considerare che, tra gli eletti della lista ufficiale, vi sono compagne e compagni di orientamento non omogeneo e che, pur non distinguendosi formalmente nel dibattito di tendenza e sempre collocandosi formalmente al centro, sostanzialmente esprimono orientamenti e culture politiche diverse o addirittura opposte. Quindi, nella valutazione del peso dei diversi orientamenti all’interno del CN, non si possono considerare solo le percentuali ottenute dalle liste, ma vanno valutate anche le differenze presenti tra i candidati eletti nella “lista ufficiale”.

Il che conduce ad una rappresentazione del nuovo Comitato nazionale sostanzialmente articolato in tre grandi aree, più o meno equivalenti quanto a consistenza nell’organismo :

-una che converge su posizioni in vario modo e con diverse accentuazioni riconducibili al progetto Linke (alcune esplicite, altre più mascherate);

-una di sinistra, attestata sulla salvaguardia della piena autonomia e identità comunista, antimperialista e di classe del partito;

-una che configura un “centro” mobile e ancora incerto. E qui molti sono quadri di federazione non schierati a priori e che abitualmente , come in tutti i partiti del mondo, stanno con la maggioranza vincente (atteggiamento che i francesi chiamano “legittimista”) e che, in situazioni di crisi o di spaccatura verticale, potrebbero collocarsi da una parte o dall’altra, a seconda delle circostanze.

Si consideri inoltre, come già dicevamo a proposito della consultazione, che questo congresso del PCF, diversamente dalla Bolognina o dal congresso di Chianciano del PRC, non è stato un congresso in cui la leadership uscente si presentava con un progetto esplicito di “superamento” del partito. E che il corpo militante del PCF ha espresso ancora largamente un orientamento di fondo che, qualora fosse messo di fronte ad ipotesi esplicite di “scioglimento”, sembrerebbe essere oggi ancora in grado di sconfiggerle. Il che non sarebbe poco, per le sorti del movimento comunista in Francia e in Europa.
La partita dunque resta aperta. E le difficoltà del primo CN riunitosi pochi giorni dopo il congresso, che doveva eleggere gli organismi ristretti di direzione e che si è concluso con un nulla di fatto, conferma la contraddittorietà della situazione e il suo carattere del tutto transitorio. Verso quale approdo?