Patriot act, solo per sei mesi

Ormai sta diventando un rituale: Casa Bianca e Congresso entrano in conflitto; George Bush scende direttamente in campo, fustiga il Congresso con l’aria severa di un papà buono e comprensivo ma che – insomma! – anche lui può perdere la pazienza; il Congresso gli risponde con uno schiaffo e lui fa finta di nulla, anzi dice che lo schiaffo era in realtà una carezza. Era accaduto giorni fa con il famoso emendamento sulle torture, sul quale Bush e soprattutto il suo vice Cheney avevano ripetutamente minacciato di porre il veto se il diritto di torturare non fosse stato concesso almeno agli agenti della Cia, e poi – quando l’emendamento è passato – si è visto un sorridente presidente congratularsi con John McCain, l’autore dell’emendamento appositamente invitato nell’Ufficio Ovale, e affermare che «noi due vogliamo le stesse cose». Mercoledì sera c’era il problema del Patriot Act, la legge «contro il terrorismo» che doveva essere rinnovata entro la fine dell’anno, pena la decadenza, e che l’altro giorno il Senato aveva bocciato. Non una bocciatura totale. I senatori democratici e un pugno di repubblicani «preoccupati» volevano solo espurgarla delle norme più minacciose per le libertà civili, come quella di frugare nelle cose che un cittadino legge, nelle sue cartelle cliniche, nel suo conto in banca, eccetera. La Casa Bianca e la maggior parte dei repubblicani avevano detto no, avevano messo il Senato di fronte a un prendere o lasciare e il Patriot Act era stato bocciato. Con uno sforzo di essere «ragionevoli»: rinnoviamolo per un periodo limitato, «tre mesi», in modo da avere il tempo di discutere le norme controverse. Bush si era pubblicamente arrabbiato, i suoi «pensatori» avevano coniato una frase – «non possiamo fare a meno del Patriot Act così com’è neanche per un secondo» – e lui e i suoi portavoce avevano preso a ripetere quel ritornello, rifiutando con sdegno la possibilità del rinnovo per un breve periodo. Non stava funzionando, gli aveva però spiegato l’altro ieri il fido Bill Frist, l’uomo lui aveva «scelto» un paio d’anni fa al posto di leader della maggioranza repubblicana al Senato, e lui aveva deciso di menare il colpo che riteneva decisivo. Ieri mattina si era presentato nel Giardino delle Rose della Casa Bianca di fronte a giornalisti e cameramen imbacuccati nei loro giacconi imbottiti e aveva «ammonito» il Senato che se non avesse votato per il rinnovo del Patriot Act si sarebbe preso «una gravissimia responsabilità» perché «i terroristi non aspettano altro». Era stata una cosa un po’ strana. La scenografia solitamente studiata per dare alle parole di Bush l’auterovolezza che si conviene era stata vanificata dal cappottone che lui si era messo addosso e che sembrava prestato dal fratello più grande. Ma quello che conta è che il Senato, nonostante il suo «alto monito», aveva tenuto duro comunque. Alla fine il Patriot Act è stato rinnovato provvisoriamente, secondo la proposta democratica, con il «contentino» ai repubblicani dell’estensione di sei mesi invece di tre. E che ha fatto Bush? Ha espresso la propria «gratitudine» al Senato per avere «respinto il tentativo di bloccarlo». Ma se lo scontro sulle torture era stato su una questione di principio, quello sul Patriot Act è scaturito direttamente dalla scoperta che Bush ha dato ordine a sue tempo all’agenzia di spionaggio elettronico Nsa di intercettare telefonate e e-mail di cittadini americani senza munirsi dell’autorizzazione del tribunale. Quella storia minaccia-promette di arrivare molto lontano, appena dopo le feste, quando i lavori parlamentari riprenderanno e avranno luogo gli hearing che la commissione Giustizia del Senato ha già deciso di tenere per farsi spiegare direttamente dagli uomini della Casa Bianca, il «ragionamento» in virtù del quale Bush e Cheney pretendono che quelle intercettasioni siano «perfettamente legali».

Ma le notizie continuano a uscire e la più recente, di ieri, è che ad arrabbiarsi per quella che già viene chiamata la impeachble action di Bush, sono stati proprio quelli che lui ha «scavalcato», vale a dire i membri del tribunale segreto che avrebbe dovuto approvare le intercettazioni e che Bush non si è degnato di consultare. Si è saputo che il giudice che presiede quel tribunale, Coleen Kollar-Kotelly, ha convocato i suoi colleghi a discutere – in segreto – la situazione venutasi a creare e che lo ha fatto per rispondere al forte malumore che si era diffuso fra loro. Il passo successivo è che quel tribunale, il cui acronimo è Fisa perché è stato creato nel «dopo-Nixon» con il Foreign Intelligence Surveillance Act, convocherà anch’esso i vertici della NSA e del ministero della Giustizia per contestare appunto la legalità del loro operato. Il punto da appurare, ha detto uno di quei giudici al Washington Post, è: «che cosa è stato fatto e in che modo ciò che è stato fatto può influenzare la credibilità delle informazioni che sono state presentate al nostro tribunale». Si prospetta un 2006 alquanto agitato per Bush.