Partito democratico, la zeppa di Occhetto sulla marcia trionfale di Fassino

Con il solito catalogo di aggettivi da Pci anni ’50, perché le sigle cambiano ma la retorica resta la stessa, l’ufficio stampa Ds sforna i dati quasi definitivi (6800 congressi di sezione fatti, 100 ancora da fare) della marcia trionfale verso il partito democratico: la partecipazione è stata straordinaria (250mila iscritti, 70mila più che nel 2001), l’affermazione della mozione di maggioranza netta(75,64%). La riconferma del segretario è fatta e strafatta, a Firenze ci sarà solo da proclamarlo con ovazioni. Ma sulla marcia trionfale, ieri accelerata dal segretario medesimo con un’intervista all’Unità in cui anticipa alle amministrative del 2008 la nascita del nuovo partito, gravano ancora non pochi ostacoli, che l’intervista di Fassino indurisce più che dissipare. Preoccupato di lanciare un amo a Mussi (fin nel titolo: «Voglio Mussi nel partito democratico»), ultimo appello utile prima della riunione di oggi in cui la sinistra deciderà se partecipare al congresso di Firenze o andarsene prima col suo 15%, il segretario si dimentica infatti dell’altro dissenso interno, quello della terza mozione (9,32%), non la nomina nemmeno e provoca una reazione irrigidita di Angius. Il quale frena dove Fassino accelera, denuncia il rischio che il congresso di Firenze si riduca a una «messa cantata», invita a buttare nel cestinbo il manifesto «inaccettabile e insormontabile» del Pd, e chiede che la fase costituente duri tutto il 2008 con verifica congressuale finale, nonché «la formale adesione» al Pse da parte di chi aderisce al Pd.
Ma non basta, perché sulla marcia trionfale piomba un vero e proprio niet nientedimeno che dal fondatore dell’era post-Pci, Achille Occhetto. E’ proprio lui, il padre di tutte le svolte, l’eroe della Bolognina, che stila una lunga lettera, «Caro Piero caro Walter», e la dirama sia sull’Unità sia sul Riformista, per chiedere senza mezzi termini che ci si fermi a pensare dove si sta andando, mosso dalla sensazione che «fra poche settimane, con il congresso Ds, si possa precipitare in un buco nero, nelle profondità oscure del quale si rischierebbe di perdere il senso stesso, il significato delle scelte e delle discriminanti che hanno caratterizzato fino a ora il nostro impegno pubblico». Detto più chiaro: «In quel buco nero temo che possa sparire, prima di tutto, la sinistra».
Si dirà che nella dinamica congressuale dei Ds Achille Occhetto, oggi europarlamentare indipendente nel gruppo socialista, conta ormai poco o niente. Ma la sua lettera fa comunque un certo effetto, destinata com’è non a chi sul partito democratico non ha mai puntato un centesimo, ma a chi viceversa ci crede o ci ha creduto. Essa suona infatti come una secca smentita di quanti, Fassino in testa, vendono le magnifiche sorti del Pd come l’esito corente e conseguente delle scelte dell”89, del superamento delle tradizioni novecentesche allora voluto, della costruzione di «un’altra cosa» dal Pci allora perseguita. Non è vero, dice Occhetto: con quelle premesse, le attuali promesse non c’entrano niente.
Per questo – oltre che per il suo scontato e sempre uguale astio verso Massimo D’Alema, evocato neanche tanto fra le righe come responsabile del «vero e proprio complotto politico» che nel ’98 avrebbe sacrificato il primo governo Prodi e l’Ulivo sull’altare della «vecchia politica» partitocratica – Occhetto si rivolge a Fassino e Veltroni, richiamandoli alla «collaborazione privilegiata che ci ha accompagnato durante la svolta e negli anni immediatamente successivi» e a una complicità che ora sente tradita. Fin dalla svolta lui, Occhetto, voleva la famigerata «nuova formazione politica» adatta al nuovo millennio, fin da allora propose l’altrettanto famigerata «carovana» che mescolasse identità e tradizioni riformiste «verso la nuova frontiera di una politica profondamente rinnovata». Ma dove allora c’era l’appello alla «sinistra sommersa», ora ci sono due apparati di partito, Ds e Dl, che si sposano senza amore. Dove c’era il sogno di una «costituente delle idee», ora c’è la prosa di «un incontro insincero fra ex democristiani e ex comunisti». E allora, cosa resta, nel progetto attuale del Pd, «di tutto quello che abbiamo pensato e sognato»? Niente, dice Occhetto. Tutto, gli si potrebbe rispondere facendogli presente che l’errore stava nel manico. Ma sono passati diciassette anni, la Bolognina dovrebbe essere archeologia politica, e se stiamo ancora a misurare il sogno dell’inizio e la prosa della fine è solo il segno di una parabola che non smette di andare all’ingiù.