Partita Iva, il dipendente mascherato

Qualcuno continua a chiamarli «imprenditori di se stessi». Sono adulti, laureati e di medio alto profilo professionale. La maggior parte di loro però guadagna meno di mille euro al mese, vive ancora con i genitori e non può «permettersi» un figlio. E’ il popolo dei collaboratori con partita Iva, universo multiforme dal punto di vista delle professioni ma «coeso come gruppo sociale», sui quali ieri l’Ires Cgil e il Nidil hanno presentato la prima indagine fatta in Italia. Sono 300 mila, quelli che al 31 dicembre 2004 erano iscritti al fondo Inps parasubordinati, il 10% in più rispetto all’anno precedente.

Non si tratta di una data casuale, d’altra parte, visto che proprio al 2003
risale l’entrata in vigore del decreto attuativo della legge 30. Quella che,
secondo il governo, avrebbe dovuto porre un freno all’uso improprio dei contratti di collaborazione, ma che invece, a quanto emerge dalla ricerca, ha contribuito in misura determinante a creare ulteriori sacche di lavoro subordinato «sommerso». La richiesta di aprire una partita Iva (molto conveniente sotto il profilo dei costi per l’impresa) è diventata un abitudine sempre più frequente per le aziende private (soprattutto quelle dei servizi all’impresa), nel passaggio da contratti di collaborazione a quelli a progetto. Ma anche per le pubbliche
amministrazioni, per le quali la partita Iva, non essendo contabilizzata,
costituisce un ottimo escamotage per scavalcare i rigidi vincoli imposti
dalle ultime finanziarie in materia di «collaborazioni».

Secondo i risultati dell’indagine, illustrata ieri da Giovanna Altieri, direttrice Ires Cgil, il 49% degli intervistati ha scelto di aprire una partita Iva su richiesta del committente, dopo l’entrata in vigore della legge 30 (mentre prima della legge erano il 30%). Dall’altra parte, il 40% di questi lavoratori può contare solo su un unico committente. Dice l’Ires: «Nonostante la monocommittenza non rappresenti necessariamente un indicatore di scarsa autonomia nel rapporto di lavoro, la sua alta percentuale allude a una dipendenza di fatto, almeno di natura economica».

A maggior ragione se è vero che, come mostra il rapporto, questa condizione colpisce per lo più gli under 30, ma è presente in misura significativa anche nel gruppo tra i 30 e i 40 anni. E tanto di più se si leggono i risultati legati all’organizzazione del lavoro. La stragrande maggioranza dei professionisti monocommittenti lavora presso la sede dell’azienda (il 75%), e deve garantire una presenza oraria (il 70%), per lo più quotidiana (il 55%). Dall’entrata in vigore della legge 30, il 50,7% dei lavoratori si percepisce come «lavoratore dipendente non regolarizzato», mentre il 52% degli intervistati sotto i 29 anni, con un altissima percentuale di donne, preferirebbe un lavoro dipendente.

«Nella maggior parte dei casi – afferma Emilio Viafora, segretario generale del Nidil – si è verificato un vero e proprio dumping contrattuale». L’assenza di diritti normalmente garantiti al lavoro dipendente (malattia e maternità), insieme all’inadeguatezza della copertura previdenziale (aliquota del 18% integralmente a carico loro) costituisce il principale svantaggio secondo la maggior parte degli intervistati. E per il 73% di loro, i sindacati dovrebbero battersi affinchè gli autonomi abbiano più tutele.
Fulvio Fammoni, segretario nazionale Cgil, parla di un «oggettivo depauperamento» di chi, con la legge 30, è stato costretto a diventare «partita Iva». E per la Cgil è necessario introdurre legislativamente «una nuova definizione di lavoro economicamente dipendente», e un aggravamento del costo del lavoro atipico per far sì che non costi meno del lavoro a tempo indeterminato. Proposte a cui il Nidil aggiunge, la necessità di ammortizzatori sociali e una nuova disciplina degli ordini professionali, per quei lavoratori per i quali la partita Iva è una scelta.