Parole chiave di una coscienza infelice

Una concomitanza, quasi mai rilevata, associa I sommersi e i salvati di Primo Levi, una delle massime imprese saggistiche del Novecento e suo libro testamentario, a Modernità e Olocausto che è forse il capolavoro di Zygmunt Bauman. Il libro dello scrittore piemontese esce da Einaudi nella primavera del 1986, quello di Bauman a Oxford tre anni dopo, mentre viene proposto in italiano, dal Mulino, solo nel ’92, quando Levi è già scomparso da sei anni. Bauman, salvo errore, non lo cita affatto (ma c’è da immaginare abbia senz’altro letto Se questo è un uomo) quando tutto invece fa pensare che Levi di Bauman ignorasse pure il nome. Tuttavia, lette in retrospettiva, le due opere mostrano un punto di vistosa, se pure involontaria, intersezione. È nota la tesi del sociologo polacco: Auschwitz non è affatto l’eccezione, l’ineffabile unicum di una impreveduta catastrofe, bensì la regola portata all’estremo (coi tratti dell’immondo e del mostruoso) della moderna società industrializzata e burocratizzata; essa è insomma la parte concava e taciuta, il grembo in cui pullula una nera irrazionalità, della zona convessa in cui la razionalità illuminista e tecnologica sembra viceversa celebrare i suoi trionfi.
Proprio lì, in quella che in realtà è una vasta terra di tutti e di nessuno, Levi inoltra lo sguardo e cimenta in un’ultima prova ciò che fu definito il suo impavido razionalismo, la volontà di capire e interpretare quanto per proverbio corrisponde all’incomprensibile e all’ininterpretabile. Il monito che chiude I sommersi e i salvati ne svela il senso e la destinazione, muovendo da una chiara finalità pedagogica: «Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge. Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale e inaspettato, non previsto da nessuno… È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto». Trent’anni prima, Se questo è un uomo era stato scritto per la necessità impellente di rendere testimonianza, ma il suo dettato nudo – con gli stenogrammi della vita umiliata e annientata – già conteneva una domanda su che cosa significhi davvero ricordare (a quale scopo, per chi?) e infatti distingueva, almeno virtualmente, tra «memoria» e «ricordo», sospettando nell’una la totalità fittizia che invita a smaltire, sostanzialmente a dimenticare, e nell’altro la parzialità (frammenti mai ricomponibili, grumi di vissuto come radioattivo) che impedisce di per sé il sollievo e l’oblìo. Se dunque il memoriale di Auschwitz corrispondeva a un primo appello dei ricordi, steso in soggettiva, con addosso le scorie psicofisiche e il riverbero glaciale dell’Anus Mundi, il libro che Levi pubblica in punto di morte è il risultato pluridecennale di una lenta e straziante metabolizzazione di quei medesimi ricordi. È infine il referto di un processo cognitivo che, proprio per il tramite di Auschwitz, esce dal perimetro di Auschwitz (vale a dire dall’alveo ambiguamente sacrale dei relativi tabù) per formulare problemi e porre domande crudamente importune alle stesse società, costruite per la redenzione e approdate alla semplice opulenza, che di Auschwitz continuano a riflettere o la causa o l’effetto, abitate da una cattiva coscienza che solo di rado riesce a tradursi in coscienza infelice. Per questo introducendo I sommersi e i salvati Levi ne parla come di «un libro che va difeso contro se stesso» e per questo noi oggi lo leggiamo, a una generazione di distanza, come un libro di antropologia o meglio come un lessico di biopolitica. Sono otto capitoli scanditi da altrettante parole-chiave (alcune divenute celeberrime: la «zona grigia», la vergogna dei salvati, la possibilità o meno di comunicare l’universo della Shoah, la condizione dell’intellettuale nel Lager, il campionario degli stereotipi, l’eterno alibi dei nazisti che peraltro Levi ama chiamare, alla spiccia, «i tedeschi») le quali convergono tutte verso un’unica domanda, di continuo articolata: che ne è di un «uomo» nel momento in cui diventa soggetto-oggetto del «potere», e specie di un potere che si vuole illimitato e totale? E ancora: che ne è della nozione e della stessa eredità di humanitas dentro le dinamiche di qualcosa che ne fa materia plastica in vista di una sua etimologica «perfezione»? Raramente Levi azzarda una risposta univoca, il suo intrepido razionalismo (cioè la veste in cui dissimula il suo autentico eroismo) preferisce la descrizione fenomenica, la puntuale trascrizione e la minuta interpretazione di idee ricevute, usi linguistici, luoghi comuni storiografici; semmai, nel costruire la microfisica del potere attraverso un evento che eccede ogni immaginario, egli ricorre talvolta ad aforismi e clausole secche adottando, ha notato Pier Vincenzo Mengaldo, «la buona semplificazione contro la cattiva e inutile complicazione».
Nel cuore del secondo capitolo, dedicato alla «zona grigia», Primo Levi afferma che la condizione di offeso non esclude affatto la colpa ma confessa di non conoscere tribunale umano cui delegarne la misura; per dirlo, utilizza una citazione: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi». Non sono, queste, parole di Bauman ma di Alessandro Manzoni, la cui Colonna Infame è infatti il solo testo evocabile, all’interno della nostra tradizione, per chi torni a leggere I sommersi e i salvati.