Paradigmi in salsa cinese

«Chi cerca di vedere la Cina da dentro per leggere le dinamiche e le correnti più profonde che attraversano una parte così grande di umanità spinta a cambiare la percezione della propria individualità come mai prima, vede spesso profilarsi l’immagine di un Proteo, le cui forme mutevoli e ambigue interrogano ormai le stesse categorie di lettura e interpretazione del «nostro» presente: democrazia, libertà, capitalismo, socialismo, welfare, diritti umani, stato, società.»
Queste parole si leggono nella conclusione di Angela Pascucci alla sua bella inchiesta condotta in Cina tra il 2006 e il 2007 quando, muovendosi da Pechino a Shanghai allo Yunnan, intervista persone di strati sociali e orientamenti diversi: dai grandi intellettuali, indipendenti e non, alla più nota manager di successo, dai contadini che tentano di ricominciare a formare le cooperative alle donne in gravi difficoltà economiche, fino ai nuovi gruppi di opposizione e agli individui (avvocati, giornalisti) che cercano con coraggioso e gratuito impegno di aiutare a far valere i propri diritti quanti subiscono soprusi – soprattutto contadini e contadini immigrati in città. Il quadro che ne esce è vivacissimo, ricco e contraddittorio, come sanno i lettori del manifesto, che ne hanno già letto qualcosa sul giornale. E più di certi studi accademici (come indirettamente suggerisce Wang Hui nella sua prefazione al libro di Angela) ci avvicinano alla realtà. Non solo alla realtà della Cina ma a quanto la Cina ha in comune oggi con i nostri paesi europei – dei quali pure sarebbe difficile tracciare linee di interessi e opinioni non solo omogenee ma almeno ben definite, e soprattutto la strada che si sta percorrendo.
Le condizioni di vita qui rappresentate – quelle di una società schizofrenica, che da un perseguito e sia pur tendenziale ugualitarismo è passata in pochi decenni al massimo di frattura fra i diversi livelli di reddito e di condizioni di vita – per un verso riproducono, nelle linee fondamentali, quanto già conosciamo a casa nostra (la Milano, per esempio, dei molti ricchi-consumisti e dei moltissimi miserabili). Dove chi non è superficiale o accecato vede pure annullarsi il senso di quelle parole: democrazia, libertà, capitalismo, socialismo, welfare, diritti umani, stato, società. Non occorre allontanarsi dai nostri confini per sperimentare come la diffusione di democrazia e libertà possa significare invasione economica e militare di territori altrui; le nozioni di capitalismo, socialismo, interessi di classe siano sostituite da concetti vacui come totalitarismo, «stati canaglia», «il nuovo»; la violazione dei «diritti umani», in un mondo in cui nessuno ne è immune, sia un facile pretesto da parte dei più forti per trovare pubblico consenso all’aggressione; la «comunità internazionale» sia la nuova designazione del club delle potenze maggiori; la resistenza dei popoli contro lo straniero venga confusa col terrorismo; le guerre coloniali vengano chiamate «missioni umanitarie»; l’occupazione dello stato da parte dei potentati economici passi per libertà (degli individui) e sia contrabbandata per «meno stato». Dovunque il medesimo processo di distruzione è in corso – delle nazioni, delle persone, delle cose e dell’intelligenza delle cose – senza che ancora appaia l’inizio di una nuova strada per liberarsi del mostro, che si presenta inafferrabile.
Allora in Cina ha avuto la meglio la colonizzazione – da cui era stata colpita ma a cui pure aveva resistito per secoli, fino alla liberazione nel 1949 – e non saprà dirci più niente di diverso da quanto già sappiamo?
Fino a quando si è guardato all’Asia dal presupposto della superiorità europea e affetti dal vizio che Edward Said ha chiamato «orientalismo», qualsiasi strada alternativa allo sviluppo capitalistico percorsa da un paese asiatico veniva qualificata come mancanza o arretratezza. Anche Carlo Marx considerò la colonizzazione inglese dell’India, sotto questo profilo, un fattore di progresso, via alla penetrazione di contraddizioni più evolute – che quindi avrebbero consentito anche una lotta di classe più avanzata. Perfino in alcuni testi storiografici cinesi degli anni Cinquanta si interpretava la sofisticata economia mercantile e monetaria in alcune province cinesi nel tardo medioevo (grande manifattura, commercio internazionale, esteso sistema bancario, lettere di credito, carta moneta…) come indice di «germi del capitalismo», (purtroppo) non sviluppatisi a causa del sistema politico dispotico, che avrebbe posto freni alla libertà e al progresso. Si trattava di storici culturalmente colonizzati dal marxismo sovietico, che si ponevano anche contro l’ipotesi di Mao Zedong: non «superare» il capitalismo, ma evitarlo. Del resto, non potevano ignorare che in Cina il preminente potere politico dello stato, per quanto dispotico, nel porre freni alla crescita del potere economico privato aveva ripetutamente tutelato la classe lavoratrice fondamentale – i contadini. Della contraddizione fra libertà economica privata e libertà politica più benessere popolare i teorici e i grandi politici cinesi furono consapevoli fin dall’antichità (vedi, per esempio, la Discussione sul sale e sul ferro (74-49 a.C.), resoconto di un dibattito dell’anno 81 a.C. pro o contro i monopoli di stato; per non parlare del grande conflitto intorno alla «nuova legge», cioè al programma di riforme stataliste a favore degli strati popolari promosso nell’XI secolo dal grande statista Wang Anshi).
L’evoluzione dell’economia non è assente nella storia della Cina, a volte con profondi strappi, come quando il dominio mongolo portò in primo piano il commercio e la classe dei mercanti, umiliando i letterati; e non sono assenti le imprese militari, anche di conquista. Tuttavia la linea dominante – durante le maggiori dinastie, quando la classe letterata ha detenuto il potere – è stata la preminenza della politica, e dello stato gestore della politica, sulla sfera economica e su quella militare. Questo orientamento di fondo ha costituito nei secoli una difesa potente contro le spinte distruttive di ogni tipo, esterne e interne. Ha finito col coincidere con la difesa di una civiltà. Non si tratta di cosa del passato, continua nel nostro secolo e nella Repubblica popolare. Il partito-stato, o stato-partito, proprio del «socialismo reale» è intollerabile per i più liberi fra gli intellettuali cinesi di oggi, interrogati da Angela Pascucci. Tuttavia per molti di essi (se si escludono i più occidentalizzati, quelli fiduciosi che in Europa o negli Usa oggi il pluripartitismo e il sistema parlamentare equivalgano alla democrazia) il modo stesso di concepire l’unità del paese e il perseguimento del suo interesse, non disgiunto dalla necessaria difesa degli strati più deboli – la grande maggioranza della popolazione – presuppone una politica forte, che si incarni nelle istituzioni pubbliche e governi l’economia. La stessa concezione ritroviamo, implicita, nella gente del popolo, anche quando è sfiduciata e non aspira più a niente, se non a trovare il modo di sopravvivere. «Oggi si pensa solo al denaro»: è affermato da tutti, ma come un dato negativo: salvo che dalla grande manager sino-americana.
Ma la sfida di oggi non è quella del passato. Il modo di vivere e di pensare del privato imprenditore (la grande manager ma anche il piccolo affarista) e del pubblico consumista ha conquistato le città; il capitale straniero agisce (legalmente e illegalmente) anche attraverso le istituzioni cinesi, specialmente quelle provinciali. Fino a oggi non solo la Cina, ma il mondo intero non ha conosciuto una così potente capacità distruttiva. Gli stessi gestori centrali della politica sembrano consentire alle nuove leggi che impongono di servire l’economia – cioè i potentati economici e finanziari, il capitale globale. Lo stato non può essere più oggi, neppure in Cina, il libero gestore della politica e il garante degli interessi popolari. La contraddizione è interna ed estrema.
Da quanto ci dicono i cinesi di ogni condizione, anche nelle diverse risposte dirette e indirette fornite in questo volume, oltre che dalla ambiguità dei suoi dirigenti e da tanti altri segnali, inclusi quelli che vengono dalla produzione letteraria in prosa e in versi, possiamo affermare che la consapevolezza critica e, d’altra parte, la forza della protesta popolare sono ben presenti. Non è possibile fare previsioni, se non forse questa: la partita non è chiusa e si gioca in Cina più che in ogni altro luogo.