Parabole internazionaliste alla vigilia del mondo globale

La nascita di un mondo di «nazioni», fra Sette e Ottocento, comportò la trasformazione degli ideali universalistici e una revisione del tradizionale cosmopolitismo filosofico. Proprio nel 1789, mentre scoppiava in Francia la grande rivoluzione, Benjamin Franklin coniò un nuovo termine, destinato a una straordinaria fortuna nei due secoli successivi: «internazionalismo». Cinquant’anni dopo, convinti che gli «operai non hanno patria», Marx e Engels chiudevano il loro Manifesto del partito comunista (1848) con una frase destinata a divenire celebre: «proletari di tutti i paesi unitevi!». Furono poi fra i promotori dell’Associazione internazionale dei lavoratori (1864-1876), che cercò di tradurre in pratica quell’appello. Scomparso Marx, toccò al solo Engels salutare nel 1889 la nascita di una nuova Internazionale operaia forte dell’adesione di gran parte delle organizzazioni socialiste europee.
Engels tuttavia non visse abbastanza per assistere al profilarsi di una Internazionale sindacale parallela e nemmeno alla repentina dissoluzione della «seconda» Internazionale nel 1914, quando gli stati maggiori socialisti si allinearono a quelli militari, accompagnando in trincea milioni di lavoratori europei. All’indomani del grande massacro, sulle ceneri delle precedenti esperienze e forti della rivoluzione vittoriosa, Lenin e i bolscevichi lanciarono nel 1919 la «terza» Internazionale, i cui confini superavano per la prima volta quelli dell’Europa.
Ad essa si affiancarono ben presto altre organizzazioni federative di partiti socialdemocratici e persino una «quarta» internazionale di ispirazione trockista. Questa e quelle, con varie metamorfosi e slittamenti, sono sopravvissute fino ai nostri giorni, mentre il Komintern, ridotto presto a espressione della politica estera sovietica, venne sciolto da Stalin nel 1943.
Dopo il 1945 la solidarietà internazionalista non restò tuttavia monopolio dell’Urss, ma rinacque nelle svariate forme di appoggio alle rivoluzioni anticoloniali, dalla Cina al Vietnam, da Cuba al Nicaragua. Il crollo di gran parte del socialismo «reale» ha reso d’un tratto desuete le convinzioni rivoluzionarie di cui era espressione l’«internazionalismo proletario»: ma non è detto che nell’era della connessioni globali gli ideali e le pratiche di una solidarietà internazionalista centrata sui lavoratori, le loro lotte e organizzazioni, siano destinate a divenire materia di sola indagine storica. Qualche segnale dell’attualità dell’internazionalismo è riproposto da Internationalisme en question(s), l’ultimo numero dei «Matériaux pour l’histoire de notre temps» (n. 84, euro 14), la rivista della Bibliothèque de documentation internationale contemporaine di Nanterre (www.bdic.fr).
Mentre Klaus Meschkat delinea un profilo della solidarietà internazionale nella Germania del 1945, sottolineando le continuità con i recenti sviluppi del «movimento dei movimenti», Jean-Pierre Garnier critica l’ideologia e la pratica «altermondialiste», ritenendole un regresso rispetto all’internazionalismo proletario classico. Il resto del fascicolo vorrebbe contribuire a un riesame della storia dell’internazionalismo, oltre le tradizionali prospettive centrate sulla dimensione istituzionale, sull’analisi dei dibattiti interni o sulla costruzione di tipologie e comparazioni fra «casi» nazionali, a favore di una storia sociale e culturale dell’internazionalismo dei lavoratori, attenta ai percorsi concreti dei militanti, alle pratiche effettive di solidarietà, alle lotte transnazionali, ma anche ai rapporti di forza e alle gerarchie interne: una prospettiva che si colloca esplicitamente nel solco della lezione del grande storico del movimento operaio Georges Haupt (L’internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Einaudi 1978).
In un saggio denso e originale, Enzo Traverso si interroga sul rapporto fra ebraismo e cosmopolitismo: stretti fra integrazione e esclusione nelle nazioni ottocentesche, gli ebrei di lingua tedesca, da Marx ai teorici e organizzatori delle socialdemocrazie tedesca e austriaca, contribuirono alla definizione di una prospettiva post-nazionale e giocarono un ruolo fondamentale nell’evoluzione che condusse dall’universalismo dei Lumi all’internazionalismo socialista. Robert Paris e Claudie Weill disegnano una serie di itinerari biografici attorno ai due modelli del militante transnazionale: i «pellegrini», che confluiscono nei centri del socialismo mondiale, e i «missionari», che procedono a diffondere il verbo internazionalista. Si tratta in genere di studenti e di esuli, di inviati dalle organizzazioni e spesso di donne, ma anche di emigranti che seguono, per restare al linguaggio religioso, una sorta di «vocazione», se non di «apostolato». L’articolazione più interessante resta quella con le «colonie» di connazionali all’estero, che offre ai militanti politici e sindacali un terreno su cui misurare la propria capacità di organizzatori, ma anche una prima forma di integrazione in un nuovo contesto spesso diffidente o teso al controllo repressivo dell’emigrazione.
Un esempio è offerto dal Club di lettura dei socialdemocratici tedeschi a Parigi (1877-1914), la cui vicenda è qui ripercorsa da Gaël Cheptou, mentre delle internazionali fra le due guerre si occupa Ursula Langkau-Alex. Babacar Fall ricostruisce le origini e gli sviluppi dell’organizzazione di classe nell’Africa occidentale francese del Novecento, segnalandone la vivacità, ma anche il passaggio dalla tutela dei sindacati metropolitani a quella dei partiti-guida della lotta anticoloniale.
La straordinaria parabola dell’internazionalismo dei portuali è ripercorsa da uno dei contributi più stimolanti, quello di Michel Pigenet, che si apre e si chiude ricordando l’importante lotta transnazionale che ha costretto nel 2003 il parlamento di Strasburgo a bocciare un provvedimento di ulteriore liberalizzazione della gestione dei porti europei. Si è trattato di una mobilitazione senza precedenti, forse un segno che il tempo dell’internazionalismo non è tramontato.