Palestina, né stato né economia

GERUSALEMME

Fino allo scorso settembre non era raro incontrare nelle strade di Ramallah e Gaza, le sedi principali dell’Anp di Yasser Arafat, imprenditori e uomini d’affari stranieri, fra questi molti israeliani, alla ricerca dell’investimento “sicuro” nei Territori autonomi palestinesi. Gli economisti delle due parti tessevano le lodi dell’ “area industriale attrezzata” di Karni, il valico tra Gaza e Israele, che avrebbe dovuto rappresentare il primo di numerosi progetti congiunti.
Oggi c’e’ l’Intifada e Karni è chiuso. Soprattutto, l’economia palestinese è morta, strangolata dal blocco totale dei Territori attuato da Israele nel tentativo, inutile, di mettere fine alla rivolta. Le perdite per l’economia palestinese sono stimate in circa 3 miliardi di dollari, lo standard di vita è sceso del 30%, il 32% della popolazione vive sotto la soglia di povertà (2 dollari), la disoccupazione è salita al 30% in Cisgiordania e al 50% a Gaza (largamente dipendente dal lavoro pendolare in Israele). Oggi che Oslo è morto e sepolto sotto le macerie delle case demolite dai bulldozer e dai carri armati israeliani, non pochi palestinesi si domandano perché l’economia dei Territori, nonostante i sette anni di “pace”, è ancora ferma al palo. All’inizio, con la firma di Oslo, donatori internazionali ed economisti di vari paesi si erano affannati a indicare nella costruzione di infrastrutture – strade, porti marittimi, aeroporti, telecomunicazioni – la prima fase di uno sviluppo che annunciavano garantito. Poi si è parlato dell’arrivo degli imprenditori stranieri, anche arabi, pronti ad investire ingenti fortune a Gaza (la “Singapore del Mediterraneo”, disse qualcuno). Invece bastarono i primi due anni di post-Oslo per capire che lo sviluppo economico palestinese non è pensabile senza la fine dell’occupazione israeliana e la nascita di uno stato indipendente, con un pieno controllo delle sue frontiere. A Parigi invece, nel 1994, i rappresentanti di vari “donatori” e di vari organismi internazionali contribuirono in modo decisivo alla formulazione di accordi economici israelo-palestinesi (Protocolli di Parigi) che in sostanza ufficializzano il controllo pressoché totale di Israele sull’economia palestinese.
Garantendosi il controllo delle frontiere, Israele è riuscita a limitare al minimo l’interscambio tra i Territori, la Giordania e l’Egitto e di fatto ha imposto ai palestinesi di importare le sue merci (prima dell’Intifada, oltre l’80% delle importazioni palestinesi proveniva dallo stato ebraico). Allungando all’infinito i tempi della costruzione del porto di Gaza, ha ottenuto di far passare l’import-export attraverso i suoi porti (l’aeroporto di Gaza non è sufficientemente attrezzato per il trasporto delle merci), garantendo lavoro ai suoi manovali a scapito dei disoccupati palestinesi. La situazione è rimasta immutata, come vuole la strategia di paralisi dello sviluppo economico palestinese descritta da Shlomo Gazit, un ex coordinatore del governo israeliano nei Territori, in un libro pubblicato a metà degli anni ottanta. Di fronte a ciò, la politica dell’Anp e’ stata passiva, non orientata allo sviluppo ma invece su una sorta “dipendenza più umana” dell’economia palestinese da quella israeliana. “Convinti dalle sirene delle Banca mondiale e soprattutto del Fmi – ha scritto l’economista palestinese Adel Samara – l’Anp ha aperto le porte a imprenditori e multinazionali senza scrupoli che cercavano soltanto lavoro a costo minimo”. Soprattutto, ha aggiunto Samara, “i dirigenti dell’Anp si sono convinti che l’unico sbocco reale per i palestinesi rimane quello del lavoro in massa in Israele, e per questo devono rimanere un serbatorio di manodopera a basso costo”.
Oggi, quel reddito da lavoro pendolare in Israele che rappresentava quasi il 50% del pil di Gaza è svanito e nessuno si fa illusioni sul futuro economico palestinese. Con l’occupazione israeliana è impossibile pianificare lo sviluppo dei Territori.