Pacifisti, sit-in alla camera: «Da lì dobbiamo ritirarci»

«Come fanno certi deputati e senatori a votare un documento che conferma le scelte di politica estera del governo Berlusconi dopo che per cinque anni, quando erano in minoranza, si sono sempre opposti al rifinanziamento della missione?». E’ la domanda che si pongono le trecento persone che manifestano davanti a Montecitorio mentre nel Palazzo è in corso il vertice dei capigruppo dell’Unione. Tante le realtà presenti in piazza: dai Cobas agli anarchici dell’Unione sindacale italiana, ai giovani comunisti romani, al neonato Partito comunista dei lavoratori dell’ex di Rifondazione comunista Marco Ferrando.
Se Giovanni Russo Spena, capogruppo di Rifondazione comunista al Senato, al termine del vertice valuta «molto positivamente» la riduzione di 2-300 unità dei nostri soldati in Afghanistan e la certezza che i nostri militari non si sposteranno nel sud del paese, per i pacifisti in piazza questo non basta. L’unica opzione possibile è il ritiro delle truppe italiane. Senza se e senza ma. Del resto, sottolineano tutti, «li abbiamo votati per dare un segnale di discontinuità forte rispetto alla politica estera del governo Berlusconi, non per confermare la leale alleanza con gli Stati uniti». Il movimento pacifista non fa sconti al «governo amico». Anche se alla prova del sit-in si ritrovano a manifestare non le migliaia di persone che si radunavano quando al governo c’era la Casa delle libertà – segno evidente di una situazione di difficoltà anche all’interno del movimento – quelli che ci sono sono pronti a lottare.
Su un argomento come la guerra, dice Marco Ferrando, «non si può tenere il piede in due scarpe. O si sta di quà o si sta di là». Qualcuno tra i militanti con le bandiere arcobaleno, arriva a ipotizzare che la sinistra radicale al governo debba «fare come la Lega». Bossi è riuscito a imporre come priorità del governo Berlusconi la devolution, bocciata poi dagli italiani col voto di domenica scorsa.«Bene, i parlamentari pacifisti dell’Unione devono fare lo stesso: la parola d’ordine è ‘Nessuna guerra’».
Oppure agire come i parlamentari cattolici, che già mettono le mani avanti e annunciano di non voler votare a favore di decisioni ritenute in contrasto con la loro religione. «Cosa c’è di più immorale di una guerra?», si chiedono in piazza. Del resto, ricordano i tanti cartelli appesi sulle transenne di piazza Colonna, «l’Italia ripudia la guerra come risoluzione delle controversie internazionali». «Ma allora anche la legge fondamentale dello stato è dalla nostra parte» afferma ridendo un signore di mezza età avvolto nella bandiera pacifista.
La questione Afghanistan è centrale per chi si oppone alla guerra: la prima manifestazione imponente di quello che venne battezzato poi «il popolo della pace» si tenne nell’autunno del 2001, dopo i primi bombardamenti su Kabul, per poi allargarsi alla questione irachena. Negli anni successivi sono scese in piazza tantissime persone per dire No alla guerra e chiedere il ritiro dei nostri soldati dalle operazioni militari nel mondo. Con la vittoria dell’Unione alla ultime elezioni politiche, lo scorso aprile, il rischio per il movimento pacifista è di «delegare» ai rappresentanti eletti la questione, rimettendo a loro le responsabilità sulla politica estera italiana. «Salvo poi vedere la pace rinchiusa in una spilletta durante una parata militare», nota polemico un giovane manifestante.
Gli ultimi attacchi sono per Massimo D’Alema. Il ministro degli esteri si sarebbe vantato del fatto che il nostro paese è il sesto al mondo per numero di militari all’estero, ricordando che questo dato è stato raggiunto anche grazie al primo governo del centrosinistra, che votò la guerra in Kosovo e la missione nei Balcani. «Beh, se questo è un motivo di vanto e non di vergogna per l’Italia – dicono i manifestanti – non sappiamo proprio più cosa pensare del ministro».
Potrebbero dire ancora molto i manifestanti, ma dopo due ore sotto l’afa asfissiante, e la gola secca per il tanto discutere, se ne vanno a piccoli gruppi, dandosi appuntamento alle prossime manifestazioni, «magari un po’ più numerosi».