Oz e la realtà della finzione

Oltre l’arcobaleno. Ricordate la celebre canzone di Judy Garland? Se l’Alice di Lewis Carroll deve scendere sottoterra per affrontare il percorso che porta alla maturità e trovare il suo Paese delle meraviglie, la piccola Dorothy del Mago di Oz invece sale in cielo. Strappata da un tornado alla sua fattoria del Kansas, si ritroverà in una terra magica in compagnia di tre strani amici: uno spaventapasseri senza cervello, un uomo di latta senza cuore e un leone senza coraggio. Con loro incontrerà streghe e stregoni, e dovrà superare diverse prove per poter tornare a casa. Un classico che resiste al tempo: tale è Il meraviglioso Mago di Oz, scritto dal giornalista americano Frank L. Baum nell’anno 1900, da oggi in edicola con l’Unità come quarto volume della collana di narrativa per ragazzi «Fantasticamente». Nel 1939 Victor Fleming, il regista di Via col vento, trasse dal libro di Baum un film musicale di enorme successo, con la baby-diva Garland nei panni di Dorothy. Ma la fortuna del romanzo era precedente, e continua a vivere di vita propria. Il perché lo spiega Roberto Denti, scrittore di innumerevoli libri per l’infanzia, saggista e fondatore a Milano della prima libreria italiana dedicata ai ragazzi.
Perché «Il mago di Oz» è diventato un classico?
«È un libro fondamentale nella storia della letteratura per l’infanzia, per diversi motivi. Intanto perché la protagonista è una ragazza reale, ma al suo fianco compaiono animali umanizzati come il leone. E questa era una novità per l’epoca: prima di Baum gli animali, nei libri per ragazzi, erano i lupi di Jack London. Tutt’altro che antropomorfi. L’altro personaggio nuovo è l’uomo meccanico di latta: un segno, all’inizio del ’900, della percezione della modernità e della tecnologia che avanza. Poi c’è la forza della protagonista, Dorothy, che con l’aiuto degli amici sa affrontare ostacoli incredibili per raggiungere il suo scopo. Ma questa è la struttura classica della fiaba, che ritorna nei grandi libri per tutte le età. Si possono leggere così anche I Promessi Sposi: un orco malvagio impedisce a due giovani di sposarsi… finché muore, aprendo la strada al lieto fine. È un’architettura narrativa forte e antica, che Baum sa rinnovare in modo moderno, pur lasciando nel racconto tanti elementi magici e fiabeschi».
Per questo il libro ebbe subito successo?
«Sì: la prima edizione vendette 90.000 copie, una cifra spaventosa per l’epoca. E l’autore gli diede un ampio seguito, con altri quattro romanzi. Come del resto aveva fatto la Alcott cinquant’anni prima con Piccole donne. Il sequel non l’ha certo inventato la Rowling con Harry Potter… Comunque la ragione della fortuna del Mago di Oz sta anche nel fatto che è un fantasy atipico. Non fuori dal tempo e dallo spazio, come ad esempio Il Signore degli anelli: in questa storia Dorothy viene dal prosaico Kansas, e lì vuole tornare. Oggi, invece, quasi sempre i romanzi fantasy sono pura evasione in mondi irreali. E si assomigliano un po’ tutti».
Meglio il realismo della fantasia, nella letteratura per ragazzi?
«Se ne discute tanto, ma è un falso problema. Verne ha scritto romanzi di fantascienza, però con personaggi reali che potremmo incontrare sull’uscio di casa. Salgari narra un mondo fantastico proiettato nel passato, con i pirati della Malesia e delle Antille: ma i suoi protagonisti sono persone vere. Alla fine della saga il Corsaro Nero, molto umanamente, piange. E questo lo rende molto più interessante agli occhi dei lettori. Tutte le narrazioni sono finzioni: ma sono anche vere, se dicono qualcosa ai ragazzi sulla loro vita presente o futura».
E le fiabe?
«Anche loro sono vere, perché ci parlano di noi: lo scriveva Italo Calvino nell’introduzione a Fiabe italiane. E poi sono eversive: alla fine della fiaba medievale, una volta superate le canoniche prove, si vive felici e contenti qui su questa Terra, mentre la Chiesa nello stesso periodo prometteva la felicità solo in cielo. Per questo le fiabe le raccontavano le donne, che finivano spesso bruciate sui roghi come streghe. Agli uomini toccava invece il ruolo di cantastorie, “cronisti” di racconti veri o verosimili».
Lei ha scritto per Editori Riuniti un «libro di base» dal titolo «Come far leggere i bambini». Già, come si fa?
«Quel titolo fu scelto dall’editore: io avrei preferito dire Come aiutare i bambini a leggere. Perché i ragazzi vanno aiutati. Oggi non è per niente facile, perché siamo abituati a una rapidità di pensiero e di lettura alla quale i classici si sottraggono. E del resto, quanti adulti hanno letto Madame Bovary o Don Chisciotte? Sono libri che ci insegnano a conoscere noi stessi, eppure si preferisce Dan Brown. Come si aiutano, allora, i ragazzi a diventare lettori? Dobbiamo metterci in gioco e prenderci il tempo di leggere insieme a loro. Gianni Rodari diceva che il verbo leggere non contempla l’imperativo. Non basta comprare i libri e “scaricarli” addosso ai nostri figli e nipoti: bisogna viverli insieme, farne oggetto di dialogo, parlare magari del film o dello sceneggiato tv che è stato tratto da questo o quel romanzo. L’atto di leggere non cambia il mondo, certo: però segna un momento di pausa dall’ossessione della velocità e del consumo. Ne vale sempre la pena».