Il suo nome è Mariam Basir. La sua professione è tra le più belle ed emozionanti: curare i bambini. Vederli crescere sani, sostenere i genitori nelle piccole e grandi fatiche quotidiane. Mariam è una pediatra palestinese. La sua testimonianza è sconvolgente. Per-
chè nasce dal vissuto quotidiano di una donna, di un medico, che vede spegnersi la luce negli occhi dei bambini che ha in cura. Quella che leggerete è la storia di una donna coraggiosa. La storia di una donna che si ribella ad un cinismo della diplomazia internazionale le cui vittime innocenti sono Ahmed, Wazir, Mahmud, Hanan, età media quattro anni. Mariam Basir non si cimenta in giudizi politici. Non cerca notorietà. Non ha ambizioni di potere. «Ho scritto questo appello – racconta – dopo aver visto morire tra le mie braccio un neonato, Khaled, aveva solo cinque mesi. Allora mi sono detta: Mariam per non impazzire devi fare qualcosa, unire la tua voce a quella di chi ogni giorno deve combattere la battaglia della vita…». Così nasce la storia di Mariam e dei bambini dell’ospedale pediatrico di Ramallah.
«Esercito la mia professione nella Cisgiordania occupata da 20 anni – spiega la dottoressa Basir – e ho vissuto con il mio popolo differenti fase di sofferenza, ma mai, mai, lo giuro su ciò che ho di più caro, ho visto nulla come nel periodo di questi ultimi tre mesi, non ho mai visto nulla di simile, né ho mai ricevuto le richieste di aiuto che ricevo ora». Richieste di madri disperate, di padri piangenti, a cui Mariam non può dare conforto e speranza. «Non ci sono gli stipendi da tre mesi per tutti i funzionari statali (165mila, ndr.), che sono la maggior parte della popolazione palestinese che porta a casa uno stipendio. Tutti i giorni vivo una tragedia più grande del giorno prima…». Una tragedia che colpisce innanzitutto i più deboli, gli inermi. I bambini. «La gente – dice Mariam – non può comprare né il latte per i neonati né il pane per i bambini. L’emoglobina per i nostri bimbi era già prima in media di 7-8gr., in questo periodo è calata ancora di più, la gente non ha soldi neppure per prendere i mezzi per arrivare all’ospedale e curare i propri bambini». È difficile per Mariam, e per chi ascolta la sua testimonianza, reggere alla commozione. Soprattutto quando i freddi numeri rilanciati dalle agenzie e riportati dai giornali sulle vittime «silenziose» di questo disastro umanitario in divenire, si trasformano in volti, in storie, in vite spezzate sul nascere. Come quella di Munir, tre anni, un bimbo che soffriva di una malattia congenita ai reni. «Munir aveva un sorriso dolcissimo – racconta Mariam – e due grandi occhi neri. Munir poteva essere salvato, se solo avessimo avuto i mezzi….». Munir è morto, come altri due bambini, perchè nel suo ospedale le medicine mancano e di conseguenza le cure per i loro reni malati erano state troppo rarefatte. Altri 150 bambini, avverte un responsabile medico di Gaza, il dottor Moawiyah Abu Hassanin, si trovano nelle loro medesime condizioni. La loro vita è appesa a un flebile filo. Che il cinismo della Comunità internazionale potrebbe spezzare. In questo momento, denuncia l’associazione dei Medici per i Diritti Umnai (Physicians for Human Rights) gli ospedali dell’Autorità palestinese sono in grado di far fronte solo al 77% delle cure di emergenza. La crisi finanziaria dell’Anp ha colpito in modo particolare i reparti cardiologici che mancano dei mezzi per effettuare interventi al cuore di bambini, angioplastiche e altre procedure cardiologiche. Il collasso del sistema sanitario, denuncia l’Associazione, metterà in pericolo la vita di molti pazienti e già nei giorni scorsi quattro pazienti, costretti a sottoporsi a dialisi tre volte alla settimana, sono morti per mancanza di medicinali nell’ospedale Shifa di Gaza.
Chiediamo alla dottoressa Basir della sua condizione di vita oggi. La dottoressa non vorrebbe dilungarsi troppo sull’argomento, ma sollecitata racconta: «Di me personalmente posso dire che grazie a Dio non ho bisogno perchè anche se non ho lo stipendio, mio marito ha delle possibilità economiche, ho però delle responsabilità familiari, ho una sorella malata da mantenere. Quando sono andata a cercare di cambiare un assegno che mi manda regolarmente un mio fratello dagli Stati Uniti per questa nostra sorella, ho scoperto che le nostre banche non lo cambiano più perchè gli israeliani e gli americani hanno proibito di cambiarli, perchè non vadano ad attività terroristiche…Può immaginare, non abbiamo stipendi, gli aiuti dei familiari all’estero non vengono cambiati dalle banche, non possiamo ritirare i soldi che arrivano dall’estero, come possiamo vivere? Come possiamo comprare le medicine e il pane per i nostri ammalati e i piccoli?…». La linea telefonica va e viene. Ramallah è ancora una città in trincea. Ieri la centralissima Piazza Manara è stata teatro di pesanti scontri a fuoco fra miliziani palestinesi e soldati di un’unità speciale di Tzahal impegnati nella cattura di un leader locale della Jihad islamica. Il bilancio della battaglia è di quattro palestinesi uccisi e una sessantina i feriti. Il crepitio dei mitra raggiunge anche l’ospedale pediatrico in cui lavora la dottoressa Basir. Paura si aggiunge a paura. Sangue a sangue. «Non so per quanto tempo possiamo tirare avanti così. Sono giorni tragici in cui sembra che il mondo intero si sia messo a punire un intero popolo per avere eletto una parte che non vogliono, è questo che il mondo chiama democrazia? Come si può stare a vedere un intero popolo che è senza mangiare?».
L’appello di Mariam Basir, pediatra, si conclude così. Con domande che attendono risposta. Ogni silenzio sarebbe un silenzio complice. Un silenzio di morte.