Orizzonti egiziani a stelle e strisce

L’Egitto di Nasser aveva instaurato un sistema economico e sociale criticabile ma coerente. Nasser aveva puntato sull’industrializzazione per uscire dalla specializzazione internazionale di stampo coloniale che aveva circoscritto l’economia del paese all’esportazione del cotone. Sadat e Mubarak hanno smantellato il sistema produttivo egiziano, a cui hanno sostituito un sistema del tutto incoerente, fondato esclusivamente sulla ricerca di redditività di imprese che per lo più si limitano a subappaltare il capitale dei monopoli imperialisti. I tassi di crescita, teoricamente elevati, che la Banca Mondiale esalta da trent’anni, sono privi di significato. La crescita egiziana è estremamente vulnerabile ed è del resto accompagnata da un incredibile aumento dell’ineguaglianza e della disoccupazione che colpisce la maggior parte dei giovani. Questa situazione era esplosiva, ed è esplosa.
Una esplosione annunciata
L’apparente «stabilità del regime» vantata da Washington poggiava su una macchina poliziesca mostruosa (1.200.000 uomini contro appena 500.000 per l’esercito) che si abbandonava quotidianamente a abusi criminali. Le potenze imperialiste fingevano che questo regime «proteggesse» l’Egitto dall’alternativa islamista. Si tratta di una bugia grossolana. In effetti, il regime aveva integrato alla perfezione l’Islam politico reazionario (il modello wahabita del Golfo) nel proprio sistema di potere, concedendogli la gestione dell’istruzione, della giustizia e dei media più importanti, in particolare la televisione. (…)
Il regime poteva apparire «tollerabile» fino a quando funzionava la valvola di sicurezza rappresentata dall’emigrazione in massa dei poveri e delle classi medie verso i paesi petroliferi. L’esaurimento di questo sistema (la sostituzione di immigrati asiatici a quelli provenienti dai paesi arabi) ha portato con sé la rinascita della resistenza. Gli scioperi operai del 2007 – i più forti del continente africano da cinquant’anni – insieme alla resistenza ostinata dei contadini minacciati di esproprio dal capitalismo agrario e alla formazione di circoli di protesta democratica nelle classi medie (i movimenti Kefaya e del 6 aprile) hanno annunciato l’inevitabile esplosione – prevista in Egitto, nonostante la sorpresa degli «osservatori stranieri». (…)
I borghesi «compradori»
Proprio come nel periodo di flusso delle lotte del passato, il movimento democratico antimperialista e sociale si scontra in Egitto con un blocco reazionario potente, guidato dalla borghesia egiziana considerata nel suo insieme. Le forme di accumulazione dipendente in opera nel corso degli ultimi quarant’anni hanno prodotto l’emergere di una borghesia ricca, unica beneficiaria dell’ineguaglianza scandalosa che ha accompagnato questo modello «liberal-mondializzato». Si tratta di decine di migliaia non di «imprenditori inventivi» – come li presenta il discorso della Banca mondiale – ma di milionari e miliardari che devono tutta la loro fortuna alla loro collusione con l’apparato politico (la «corruzione» è una componente organica di questo sistema). Questi borghesi compradori (nel linguaggio politico corrente in Egitto il popolo li definisce «parassiti corrotti») costituiscono la base di sostegno attivo dell’inserimento dell’Egitto nella globalizzazione imperialista contemporanea, gli alleati incondizionati degli Stati Uniti. Fra i loro ranghi contano numerosi generali dell’esercito e della polizia, «civili» associati allo Stato e al partito al potere («nazional-democratico») creato da Sadat e da Mubarak, religiosi (la totalità dei dirigenti dei Fratelli musulmani e dei principali sceicchi dell’Azhar sono tutti «miliardari»). (…)
Questo blocco sociale reazionario dispone di strumenti politici al suo servizio: l’esercito e la polizia, le istituzioni dello Stato, il partito politico privilegiato (di fatto una sorta di partito unico), vale a dire il Partito nazional-democratico creato da Sadat, l’apparato religioso (l’Azhar), le correnti dell’Islam politico (i Fratelli musulmani e i salafisti). L’aiuto militare concesso dagli Stati Uniti all’esercito egiziano non è mai servito per rafforzare la capacità difensiva del paese ma al contrario per azzerarne i pericoli con l’uso di una corruzione sistematica, non solo riconosciuta e tollerata, ma sostenuta attivamente e cinicamente. Questo «aiuto» ha permesso agli ufficiali più alti in grado di appropriarsi di segmenti importanti dell’economia compradora egiziana, al punto che in Egitto si parla della «società anonima/esercito» (Sharika al geish). Gli alti vertici dell’esercito, che si sono assunti la responsabilità di «dirigere» la transizione, non sono per questo neutri, sebbene abbiano avuto l’accortezza di sembrarlo, dissociandosi dalla repressione.
Il governo «civile» ai suoi ordini (i cui membri sono stati nominati dall’alto comando militare), composto in parte da uomini del vecchio regime, scelti tuttavia fra le personalità meno visibili, ha preso una serie di misure rigorosamente reazionarie per frenare la radicalizzazione del movimento. Tra queste misure una scellerata legge anti-sciopero (con il pretesto di rimettere in piedi l’economia del paese), una legge che impone rigide restrizioni alla costituzione di partiti politici il cui scopo è di offrire la possibilità di entrare nel gioco elettorale solo alle correnti dell’Islam politico (Fratelli musulmani, in particolare) già bene organizzate grazie al sistematico sostegno del regime precedente. E nonostante tutto questo, l’atteggiamento dell’esercito resta in ultima analisi imprevedibile. Infatti, a dispetto della corruzione dei quadri (i soldati sono coscritti, ma gli ufficiali sono di carriera), il sentimento nazionalista non è mai del tutto assente, senza contare che l’esercito soffre per essere stato di fatto escluso dal potere a profitto della polizia. In questa situazione, e dato che il movimento ha espresso con forza la sua volontà di allontanare l’esercito dalla direzione politica del paese, è probabile che le alte sfere militari sceglieranno in futuro di restare dietro le quinte, rinunciando a presentare i propri uomini nelle prossime elezioni.
I Fratelli musulmani costituiscono la sola forza politica di cui il regime aveva non solo tollerato l’esistenza, ma della quale aveva sostenuto attivamente lo sviluppo. Sadat e Mubarak avevano affidato loro la gestione di tre istituzioni fondamentali: l’istruzione, la giustizia e la televisione. I Fratelli musulmani non sono mai stati e non possono essere «moderati», e ancora meno «democratici». Il loro capo – il mourchid (traduzione araba di «guida» – Führer) è autoproclamato e l’organizzazione si basa sul principio della disciplina e dell’esecuzione degli ordini dei capi, senza discussioni di sorta. La direzione è costituita esclusivamente da uomini ricchissimi (grazie fra l’altro al sostegno dell’Arabia Saudita e dunque di Washington), i quadri da uomini provenienti da segmenti oscurantisti delle classi medie e la base da gente del popolo reclutata dai servizi sociali di carità offerti dalla confraternita (e sempre finanziati dall’Arabia saudita), mentre le forze d’assalto sono composte dai miliziani (i baltaguis) reclutati tra i lumpen. (…)
La collusione tra le potenze imperialiste e l’Islam politico non è del resto una novità, né una caratteristica dell’Egitto. Fin dalla loro creazione, nel 1927, i Fratelli musulmani sono sempre stati un utile alleato per l’imperialismo e il blocco reazionario dell’area, e hanno sempre rappresentato un terribile avversario per i movimenti democratici in Egitto. Di certo i multimiliardari che oggi compongono la direzione della Confraternita non si uniranno alla causa democratica! L’Islam politico è anche l’alleato strategico degli Stati Uniti e dei loro partner subalterni della Nato in tutto il mondo musulmano. Washington ha armato e finanziato i talebani, definiti «eroi della libertà» (Freedom Fighters) nella loro guerra contro il regime nazional popolare detto «comunista» (prima e dopo l’intervento sovietico). Quando i talebani hanno chiuso le scuole per ragazze create dai «comunisti», ci sono stati «democratici» e perfino «femministe» che hanno sostenuto il bisogno di «rispettare le tradizioni»!
In Egitto i Fratelli musulmani sono ormai spalleggiati dalla corrente salafista («tradizionalista»), ampiamente finanziata dai paesi del Golfo. I salafisti si dichiarano estremisti (wahabiti convinti, intolleranti rispetto a qualsiasi altra interpretazione dell’Islam) e sono all’origine degli assassini sistematici perpetrati contro i copti. Operazioni difficili da immaginare senza il tacito sostegno (se non la complicità) dell’apparato governativo, e in particolare della Giustizia, largamente affidata ai Fratelli musulmani. Questa singolare divisione del lavoro permette ai Fratelli musulmani di passare per moderati, cosa che Washington finge di credere. Ci sono tuttavia lotte violente all’orizzonte in seno alle correnti religiose islamiste in Egitto, dal momento che l’Islam egiziano è storicamente sufi, e le sue confraternite contano oggi circa quindici milioni di fedeli. Islam aperto, tollerante, che insiste più sulle convinzioni individuali che sulla pratica dei riti («ci sono tante strade verso il Signore quante sono le persone sulla terra», dicono), il sufismo egiziano è stato sempre guardato con sospetto dai poteri dello Stato che tuttavia, usando la carota e il bastone, si guardavano bene dall’andare a uno scontro aperto. (…)
Islamizzazione alla wahabita
Si parla molto, per dare legittimità a un governo dei Fratelli musulmani («uniti alla democrazia!»), dell’esempio turco. Ma è solo fumo negli occhi, perché l’esercito turco, che resta ben presente tra le quinte, sebbene sia certamente non democratico e per di più sia un alleato fedele della Nato, resta la garanzia della «laicità» in Turchia. Il progetto di Washington, apertamente espresso da Hilary Clinton, Obama e dai think tanks al loro servizio, si ispira al modello pakistano: l’esercito («islamico») tra le quinte, il governo («civile») assunto da uno o più partiti islamici «eletti». Evidentemente in questa ipotesi il governo «islamico» egiziano sarebbe ricompensato per questa sottomissione sulle cose essenziali (il fatto che non vengano rimessi in causa il liberalismo e i cosiddetti «trattati di pace» che permettono a Israele di continuare la sua politica di espansione territoriale) e potrebbe proseguire, a mo’ di demagogica compensazione, la realizzazione dei suoi progetti «di islamizzazione dello Stato e della politica», e gli assassini dei copti! Bella democrazia, quella concepita a Washington per l’Egitto! È evidente che l’Arabia saudita sostiene con tutti i suoi mezzi finanziari questo progetto, perché Ryad sa benissimo che la sua egemonia regionale (nel mondo arabo e musulmano) esige la riduzione dell’Egitto a uno stato di insignificanza. E il mezzo per raggiungere questo obiettivo è «l’islamizzazione dello Stato e della politica» – di fatto, una islamizzazione alla wahabita. (…)
Questa forma di islamizzazione è possibile? Forse, ma a prezzo di violenze inaudite. La battaglia si combatte sull’articolo 2 della costituzione del regime caduto. Questo articolo secondo il quale «la sharia è la fonte del diritto», è una novità nella storia politica dell’Egitto. Né la costituzione del 1923, né quella di Nasser l’avevano immaginato. È stato Sadat che l’ha introdotto nella nuova costituzione, con il triplice sostegno di Washington («rispettare le tradizioni»!), di Ryad («il Corano fa da Costituzione») e di Gerusalemme («lo Stato di Israele è uno Stato ebraico»).
Una dichiarazione bugiarda
Il progetto dei Fratelli musulmani rimane la realizzazione di uno Stato teocratico, come testimonia il loro attaccamento all’articolo 2 della Costituzione di Sadat/Mubarak. Inoltre il programma più recente dell’organizzazione rafforza ancora questa visione passatista proponendo di costituire un «consiglio degli ulema» incaricato di vegliare sulla conformità di qualsiasi proposta di legge alle esigenze della Sharia. Questo consiglio costituzionale religioso è analogo a quello che in Iran controlla il «potere eletto». Il regime è allora quello di un super partito religioso unico e tutti i partiti che rivendicassero la laicità diventerebbero «illegali». I loro sostenitori, come i non musulmani (i copti), sarebbero di fatto esclusi dalla vita politica. A dispetto di tutto questo i governi a Washington e in Europa si comportano come se si potesse prendere sul serio la recente dichiarazione dei Fratelli musulmani, che «rinunciano» al progetto teocratico (ma senza modificare il loro programma!), una dichiarazione opportunista e bugiarda. Gli esperti della Cia non sanno leggere l’arabo? Si impone una conclusione: Washington preferisce il potere dei Fratelli musulmani, che garantisce la permanenza dell’Egitto nella sfera sua e della globalizzazione liberale, a quello dei democratici, che rischierebbero molto di rimettere in questione lo stato subalterno dell’Egitto.