L’ approvazione da parte del Senato della controriforma dell’ordinamento giudiziario non è la semplice ripetizione di un copione già visto. Questa volta, infatti, lo strappo al sistema costituzionale è più profondo perchè, ad essere aggrediti, sono, oltre alle prerogative della giurisdizione e alla tutela dei diritti dei cittadini, anche i poteri del presidente della Repubblica e il sistema delle relazioni tra le istituzioni dello Stato.
Quando, nel dicembre dello scorso anno, la controriforma è stata per la prima volta licenziata dalle Camere, non si è manifestato solo – cosa già di per sé clamorosa – il dissenso pressoché unanime della cultura giuridica e degli operatori della giustizia. È accaduto ben di più. Con un’iniziativa assai rara nella storia della Repubblica (e unica per il carattere analitico del messaggio), il capo dello Stato, avvalendosi dei poteri attribuitigli dall’art. 74 della Costituzione, ha rinviato il testo al Parlamento per una nuova deliberazione, segnalando ben quattro profili di “manifesta incostituzionalità” e stigmatizzando “un modo di legiferare non coerente con la ratio delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l’articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata “articolo per articolo e con votazione finale”. Il messaggio del presidente era chiaro ed esplicito. La legge approvata: a) introduce, affidando al ministro la competenza a relazionare annualmente alle Camere “sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso”, una indebita intromissione del Governo nell’esercizio della funzione giudiziaria; b) porta tale intromissione – fatto inedito nel nostro Paese – fino al diretto controllo sul contenuto delle decisioni dei giudici, realizzato attraverso un monitoraggio costante, da parte del ministro, sull’esito dei procedimenti; c) attacca il cuore del sistema di autogoverno dei magistrati attribuendo al ministro la facoltà di “ricorrere in sede di giustizia amministrativa contro le delibere del Consiglio superiore della magistratura concernenti il conferimento o la proroga di incarichi direttivi adottate in contra-sto con il suo concerto o parere”; d) realizza un’ulteriore “menomazione” dei poteri del Consiglio, attribuendo un ruolo centrale (e di fatto esclusivo) in tema di assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati alla Scuola superiore della magistratura e ad apposite commissioni, in entrambi i casi esterne al Consiglio superiore.
Orbene, di questi specifici rilievi, il testo elaborato dalla maggioranza parlamentare ha accolto solo il secondo mentre sugli altri punti le modifiche sono state esclusivamente formali e prive di reale incidenza: la relazione del ministro sullo “stato della giustizia” resta indeterminata nei contenuti e negli obiettivi, con conseguente attribuzione di fatto al Governo della possibilità di realizzare una pesante e intollerabile ingerenza sulla giurisdizione, specie in periodi di conflittualità fra potere politico e giudiziario; il potere del ministro di impugnare le delibere concernenti il conferimento o la proroga di incarichi direttivi (incidendo così sul governo degli uffici giudiziari) resta inalterato, ché la sua limitazione ai casi in cui non vi sia “conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato” è poco più che una formula di stile; la previsione che i giudizi finali della scuola o delle commissioni di concorso “sono valutati” dal Consiglio superiore è una mera ipocrisia, non essendo dato vedere come ciò possa avvenire dopo che dette strutture hanno effettuato giudizi specifici, selezionato gli idonei ed escluso i candidati ritenuti immeritevoli…
I rilievi del presidente della Repubblica sono stati, dunque, elusi e – si badi – senza alcuna motivazione e senza un reale dibattito parlamentare (teso, se necessario, a confutarli, in tutto o in par-te). Così non solo resta l’incostituzionalità del testo ma viene violato il principio, fondamentale in una democrazia, di leale collaborazione tra poteri e articolazioni dello Stato, secondo un copione già proposto dal ministro sia nei confronti del Consiglio superiore che nei confronti dello stesso capo dello Stato (basti pensare alla recente vicenda della grazia…). Che la cultura costituzionale del Guardasigilli e della maggioranza parlamentare avesse bisogno di qualche “ripasso” non era certo una novità e forse non ci si poteva aspettare di più da un ministro che, all’atto del messaggio presidenziale, aveva allegramente commentato che se i profili di incostituzionalità della legge erano solo quattro ciò significava che tutto il resto andava bene (come a dire che se in un’operazione chirurgica sono stati dimenticati nel corpo del paziente solo due bisturi e un paio di forbici occorre festeggiare perché gli altri strumenti sono stati tolti…). Ma una qualche voce preoccupata e tesa a riportare un minimo di razionalità nel dibattito era lecito attendersela anche nella maggioranza. Così non è stato: a dimostrazione del fatto che quando si vogliono ridimensionare i diritti e le libertà di tutti (indebolendo gli organi posti alla loro tutela) non si può andare troppo per il sottile.
*Consigliere della Corte di Cassazione (presidente di Magistratura democratica)