«Ora nessuno potrà mai più dire di non sapere». Il racconto della mobilitazione nei giorni scorsi nel porto di Genova da parte di Fabio Ferretti, delegato sindacale e impiegato nel settore delle manovre in porto, inizia da questa osservazione.
Cosa è accaduto l’altro giorno al porto di Genova?
La notizia della morte di Enrico è circolata con un veloce giro di telefonate e sms. Credo di essere arrivato sul posto al massimo dopo 30 minuti dell’incidente. Nel giro di un’ora sono arrivati spontaneamente centinaia di lavoratori dei terminal, della compagnia, degli spedizionieri. Il dolore, la delusione, la rabbia dei lavoratori era al massimo. Difficile cancellare la consapevolezza che da tempo alcune cose potevano essere fatte per evitare la morte di un altro portuale.
Cosa intendi dire affermando che era possibile fare qualcosa?
Da tempo stavamo denunciando, nel sindacato e anche pubblicamente, che i ritmi di lavoro erano diventati assurdi e le condizioni generali di sicurezza erano assolutamente inadeguate per quello che è il lavoro in porto oggi. Spesso molti lavoratori hanno addirittura ricevuto pressioni e in alcuni casi perfino intimidazioni solo perché denunciavano quello che oggi è davanti agli occhi di tutti. Ora nessuno potrà mai più dire di non sapere.
Da molto tempo non si verificavano proteste così eclatanti, con due giorni di blocco dei varchi del porto, presidi, manifestazioni, cortei.
Posso parlare solo per il periodo che ho trascorso in porto, dal ’98 a oggi: no, in nove anni che lavoro qui non ho mai visto niente del genere anche davanti a altri incidenti e passaggi drammatici. E non si tratta di un episodio. A dimostrarlo è che il presidio e il blocco dei varchi è durato 24 ore in più dello sciopero indetto dalle segreterie sindacali, e che lunedì il presidio si è riformato e che poi un corteo è sfilato fino all’autorità portuale. Si è formata un’assemblea di lavoratori di tutti i terminal, della compagnia, delle manovre. Questo è il dato più importante, quello dell’unità, dell’impegno dei lavoratori di tutti i settori.
Un impegno che sembra aver scavalcato addirittura le piattaforme sindacali.
Questo non lo so. Quello che è certo è che l’assemblea dei lavoratori che presidiavano i varchi ha elaborato tre punti che sono poi stati portati in sede di assemblea dei delegati. E questi punti alla fine sono stati recepiti poi nel documento che è stato presentato lunedì pomeriggio nell’incontro con prefettura, governo, autorità portuale e Asl.
Quali sono questi punti?
Sostanzialmente si è chiesto il pieno recepimento della legge 84 del ’94 in particolare sull’individuzione delle competenze, la revoca della concessione pubblica ai privati che non rispettino le norme, e l’istituzione di un coordinamento dei lavoratori portuali. Era presente anche il sottosegretario Patta. Anche lui ha dichiarato di aver accolto le sollecitazioni dei lavoratori. E noi vigileremo. Perché quello che è successo non deve più succedere.
Pensi che sia già in atto qualche cambiamento sostanziale per quanto riguarda la sicurezza dopo la morte di Formenti?
Assolutamente no. Lunedì, mentre attraversavamo il porto in corteo, nei terminal si lavorava come al solito. E come al solito, nel poco tempo della manifestazione, si sono verificati due altri incidenti, uno al terminal Messina e un altro lì vicino. Qui si lavora sempre in condizioni pesantissime, con turni massacranti, con merci e macchinari pericolosi.
Dopo la morte di Formenti si sono fermati tutti i porti italiani, con adesioni del ‘90% allo sciopero. Eppure ogni porto è una storia a se.
Si, e questo è un problema. Ieri ho saputo, quasi per caso, che a Ravenna prima dell’imbarco i container vengono pesati per migliorare l’equilibrio delle navi e le inclinazioni del ponte dove circolano i mezzi meccanici. Si tratta di una norma importante per garantire la sicurezza. A Ravenna si fa così, a Genova no. Quello che manca è un quadro nazionale sulla portualità.