Ora trattano

Solo quattro giorni fa Bush, «presentando in pubblico» il premier iracheno Jaafari, aveva insistito, preoccupato dai sondaggi che danno per svanito l’incerto sostegno alla guerra, che la situazione in Iraq era «sotto controllo» e la violenza «marginale». Adesso il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, per rispondere alla fuga di notizie sui colloqui tra americani e ribelli iracheni, ammette che sì, si sta trattando ma «di incontri con i ribelli ce ne sono di continuo» e visto che la guerriglia rischia di durare «12 anni» è meglio trattare «per separare gli insorti locali dai combattenti stranieri». Inoltre gli americani devono stare tranquilli perché in Iraq, fortunatamente, «non c’è un Ho Chi Minh o un Mao». Anche l’«europeo» Tony Blair ha ammesso colloqui con «gruppi che in Iraq appoggiano la violenza, ma per inserirli nel processo di pace». Trattano. O dichiarano di farlo. Perché il disastro della guerra è sempre più cogente ogni giorno che passa. Il conflitto non si risolve e aumentano i morti americani. Ne hanno parlato in questi giorni in una audizione al Senato Usa i generali Casey e Abizeid, fino a contraddire il vicepresidente Dick Cheney e lo stesso Rumsfeld: «la situazione è più difficile» di un anno fa, hanno detto. Pantano, sabbie mobili, inferno. Nessuno riesce più a nominarla, la situazione irachena. Trattano perché alla Conferenza di Bruxelles tra Ue e Usa è apparso chiaro a tutti quel che perfino Kofi Annan ha ricordato: nessuna questione di sicurezza sarà mai risolta in Iraq se non verrà avviato «un processo inclusivo» di altre realtà politiche. Vale a dire i sunniti, che gli Stati uniti e i governi iracheni alleati hanno ogni volta escluso dalle istituzioni. Al punto che lo stesso portavoce dell’ambasciata americana a Baghdad, Alberto Fernandez, ha confermato le trattative in corso con gli insorti, fino a «membri dell’ex partito Baath», per uscire dalla «sconfitta strategica» subita dagli Usa, a suo dire per la gestione «quasi prossima alla catastrofe» della crisi da parte dell’ex amministratore Paul Bremer. E il fatto è significativo. Perché oggi, 28 giugno, anniversario del passaggio dei poteri un anno fa a Baghdad dalle forze d’occupazione a un governo provvisorio, il presidente George W. Bush terrà un atteso discorso dalla base militare di Fort Bragg.

Infine trattano con i sunniti perché la vittoria del conservatore Ahmadinejad nell’Iran circondato da due armate statunitensi in Afghanistan e Iraq, mostra la crescente forza politica degli sciiti nell’area. Ora che l’Iraq smembrato e occupato, non più secolare, è di fatto nelle mani politiche e religiose degli sciiti pronti a scrivere la «nuova» costituzione. E trattano nonostante che, ieri, in concreto sia stato annunciato l’ingrandimento (sic) di Abu Ghraib e che sia stato arrestato lo sceicco Omar Raghab, uno dei responsabili del Comitato degli ulema che rappresenta i sunniti.

Trattano dunque. Proprio con quelli che fino a poche ore fa chiamavano «terroristi», con i quali «non si deve trattare» altrimenti «si aiuta il terrorismo», anzi «si diventa terroristi» – sono le parole degli ultimi discorsi dei vari Bush, Blair e Berlusconi.

Già, l’Italia. Se gli alleati dichiarano a più riprese di trattare con i combattenti iracheni e cominciano quasi a farsene un vanto, come non ricordare Nicola Calipari. Che quasi quattro mesi fa, il 4 marzo, veniva ucciso da una pattuglia di uno strano check point americano, nascosto nel buio e senza ordini di non sparare, in un agguato di «fuoco amico». Un «incidente» – secondo la versione americana che non è riuscita a convincere nessuno – che sostanzialmente è apparso come un avvertimento contro qualsiasi ipotesi di trattativa con il nemico in zona di guerra. Un messaggio di morte, perché Nicola Calipari aveva avuto il coraggio di parlare con gli insorti-sequestratori, per liberare l’ostaggio – Giuliana Sgrena – e fermare un criminale blitz, dando così prova di una possibilità concreta alla trattativa politica. Davvero il governo italiano non ha nulla da dire?